Il calcio e l’isola che non c'è di Ezio Glerean
PADOVA. «Ho scritto questo libro in un momento particolare della mia vita: allenando, vedevo ragazzi che abbandonavano presto, troppo presto il calcio. E sono andato alla ricerca del motivo».
Ezio Glerean, ex calciatore professionista e soprattutto ex allenatore di Cittadella, Venezia, Palermo, Padova, Venezia, Bassano e Cosenza dei tempi d'oro, ha inaugurato la nuova rassegna del Coni Veneto, “Parole di Sport”, un libro al mese scritto da atleti, ex o ancora in attività. L'appuntamento si è svolto proprio nella città del Santo, alla libreria Pangea dove sono disponibili ancora alcune copie del suo “Il calcio e l'isola che non c'è” (ed. Mazzanti), un manifesto per il rilancio del calcio italiano a partire dal recupero della gioia di giocare al pallone da parte dei giovani, dal recupero del rapporto con il territorio, con le famiglie, gli amministratori locali e le società sportive. Proprio gli adulti, secondo il mister, con i loro comportamenti, sono spesso la causa dell'abbandono sportivo.
«Dovremmo insegnare a perdere prima ancora che a vincere. È però un'utopia, perché manca una scuola che prepari gli allenatori ad affrontare prima i genitori e poi le sconfitte. Il calcio ha troppe regole? Sì, sono state fatte per noi grandi, per cercare di non farci litigare, perché i bambini, anche se perdono, anche se subiscono fallo, sono già pronti a ricominciare a giocare, con il loro pallone, fuori dallo spogliatoio».
Non è però – per fortuna – tutta degli adulti la responsabilità: ci sono giovani che non ascoltano. «Sono quelli che non capiscono che pulirsi gli scarpini e riordinarsi la sacca, significa avere disciplina, ordine e obiettivi». E suggerisce un antidoto semplice quanto brutale: «Allenatori, fate giocare i più piccoli contro i più grandi. Perderanno? Certo, ma la sconfitta per loro non esisterà, perché avranno la possibilità di confrontarsi e di capire di avere margini di miglioramento». Poi è ovvio se di tanti che iniziano a calcio a 5/6 anni, ne arrivano gran pochi nelle grandi squadre. «Non riusciamo più a crescere il talento, il talento va lasciato libero di esprimersi e di vivere di fantasia. Se poi smettono a 13 anni, è anche perché sono stanchi di essere rimproverati».
Cristina Chinello
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