Il playmaker che si divertiva con i soldatini

Gianluigi Jessi titolare del Petrarca anni ’60 ha trasformato la sua passione in un lavoro
Di Mattia Rossetto
BARON - GIANLUIGI JESSI
BARON - GIANLUIGI JESSI

ABANO TERME. «Jessi, Jessi, falli tutti fessi». Il coro, che si levava al palazzetto del complesso Antonianum, tempio del basket cittadino e del Petrarca a metà degli anni Sessanta, era indirizzato a un giovane playmaker con gli occhiali, che ammaliava la platea annichilendo l’avversario di turno. Quel vivace ragazzo con gli occhiali, cresciuto all’ombra del centro giovanile Tre Pini, era Gianluigi Jessi, il regista del Petrarca più forte di tutti i tempi. Ovvero del leggendario Petrarca, che con il mago jugoslavo Asa Nicolic in panchina e il fuoriclasse americano Doug Moe in campo, centrò nel 1966 uno storico terzo posto in una serie A d’elite, limitata a sole 12 squadre.

Ma Jessi è stato anche l’unico cestista padovano, insieme all’amico e compagno di club Franco Fantin, a prender parte nel 1968 alle Olimpiadi in Messico. A distanza di 45 anni, lui rievoca quel momento quasi si trattasse di una parentesi minimale. Forse perché nella sua vita, gioco e passione si sono sempre compenetrati alla quotidianità trasformandosi nel tempo in un lavoro a tutti gli effetti. È successo con la pallacanestro e più tardi con il suo passatempo preferito: i soldatini. Oggi, Jessi è uno dei più importanti collezionisti di giocattoli in Europa, ma probabilmente non lo sarebbe mai stato senza il basket. E pensare che quand’era un ragazzetto, non sembrava neppure tanto tagliato per la palla a spicchi: «Avevo 12 anni, andai al Petrarca per giocare a rugby, ma capii ben presto che fango e mischie non facevano per me. Così, un po’ più tardi di altri miei coetanei cominciai a praticare la pallacanestro. All’inizio non ero un granché. Ogni giorno mi recavo al campetto dell’Antonianum, dove incontravo tanti ragazzi della mia età molto più bravi di me. Fortuna che eravamo abbastanza numerosi e la società decise di allestire una squadra B per dare modo a quelli meno “portati” di scendere in campo».

Recentemente, in una delle sue telecronache, Dan Peterson ha ripreso le parole, con cui Asa Nicolic la apostrofava: «È come una mucca che produce tanto buon latte, ma poi scalcia via il secchio». Cosa significa?

«Nicolic era un allenatore pragmatico e calcolatore, che guardava anzitutto al risultato. Fu un rivoluzionario: introdusse il professionismo, laddove non era ancora presente, puntando alla specializzazione di ogni singolo giocatore. Ma io ho sempre concepito la pallacanestro come puro divertimento. Anche quando venivo considerato il più forte difensore italiano, mi domandavo come mai al campetto vi fosse sempre qualcuno più capace di me. C’era gente, come Federico “Ico” Tonzig, fratello di Alberto, mio compagno al Petrarca, che era dotata di grande talento, ma a cui non interessava giocare a grandi livelli. All’epoca il basket non era così professionalizzato e stressante come quello attuale. Al Petrarca non ci allenavamo tutti i giorni, ci bastava qualche ora a settimana. Eppure giocavamo in serie A. Rammento soprattutto le sfide contro la Ignis Varese di Dino Meneghin, un campione implacabile che sul parquet non risparmiava proprio nessuno».

Per lei, però, il basket si trasformò in una professione.

«Con Justo Bonetto fui tra i primi giocatori a strappare un contratto. Ai tempi esisteva solo un modesto rimborso spese, ma arrivammo a percepire una specie di stipendio. Avevo stabilito un certo feeling con Giacomo Galtarossa, presidente del Petrarca. Stravedeva per me e dopo la prima litigata, si instaurò un rapporto di stima reciproca. Era un personaggio, che godeva di grande rispetto. Oltre a essere il “padrone” del Petrarca, era presidente degli industriali e responsabile della Società ciclisti padovani, che annoverava i campioni del mondo su pista Beghetto e Bianchetto. Spesso, ci accompagnava personalmente in trasferta. Una volta, a bordo della sua Jaguar, avemmo pure un incidente mentre viaggiavamo verso Milano per affrontare il Simmenthal».

Ai giochi olimpici del ’68, Jessi era il play della Nazionale, che l’anno antecedente aveva partecipato a Europei e Mondiali. Cosa ricorda di quell’Olimpiade?

«Arrivammo in Messico due mesi prima per abituarci all’altura. Ci allenavamo a 2.500 metri d’altezza. Non fummo fortunati. Capitammo in un girone di ferro con gli Stati Uniti e la Yugoslavia, che puntava alla medaglia di bronzo. La formazione slava era la nostra bestia nera e anche in quel caso uscimmo sconfitti. La spedizione olimpica si risolse in una gita di piacere. Visitammo Città del Messico e le piramidi azteche. In Nazionale, di solito ero in camera con Aldo Ossola, Charlie Recalcati o Enrico Bovone. L’Italia era formata da elementi che avevano già giocato tre o quattro Olimpiadi. Il tredicesimo azzurro, chiamato come riserva, era invece un mio grande amico, che militava con me al Petrarca nel mio stesso ruolo: Franco Fantin. Una persona straordinaria, scomparso prematuramente qualche anno fa. Altrettanto indimenticabile fu l’avventura con la Nazionale militare ai Mondiali di Baghdad. Trovavamo soldati armati di mitra a ogni strada. Per diversi giorni, dormimmo in un corridoio e fummo costretti a mangiare carne in scatola e formaggini portati da casa».

In quel periodo si occupava di altro, oltre alla pallacanestro?

«I miei genitori continuavano a chiedermi quando avrei smesso di fare l’“ebete” in braghette corte. Nel giugno del 1971, dopo che venni ceduto dal Petrarca, mi sono laureato in Economia e Commercio all’Università di Napoli. Il bello è che ho sostenuto soltanto due esami nella città partenopea, in precedenza avevo sempre studiato a Verona. Sempre a novembre dello stesso anno, iniziai a lavorare in una filiale della Banca Antonveneta a Padova. Dopo alcuni campionati in A, chiusi la mia carriera da cestista in serie C a Ponte di Brenta. Poi, lavorai come dirigente in un’azienda del settore alimentare a Galliera Veneta tra le più grandi produttrici di macchine per la pasta in ambito internazionale».

Perché scelse di abbandonare totalmente il mondo della pallacanestro?

«Mi ero stancato. Provai a fare l’allenatore, ma si rivelò una pessima esperienza. Dopo il basket ho corso con le auto da rally. I fratelli Carenini mi prepararono una macchina formidabile: gareggiavo con una Opel Ascona 2.0. Alla lunga, però, le corse mi delusero: eri considerato un bravo pilota solo se disponevi di un’automobile supersonica».

Come diventò un collezionista di giocattoli?

«A 35 anni cominciai a dedicarmi al collezionismo per diletto. Ricomperavo i giochi di quand’ero bambino, in particolare i soldatini. Un giorno mi recai a Stoccarda per motivi di lavoro e incrociai Karl Heinz Sailer, uno dei più grandi collezionisti di giocattoli esistenti. In Germania, mi recai ogni 15 giorni per 10 anni appassionandomi ai giochi precedenti alla Grande guerra».

Una passione, che adesso rappresenta la sua principale occupazione.

«All’Oic della Mandria, su gentile concessione di mio cognato Angelo Ferro, presidente della stessa fondazione, ho allestito in via Toblino il Museo veneto del giocattolo. Contiene 400 pezzi fra giochi antichi e moderni, suddivisi in sei sezioni: automobili, navi e aeroplanini, trenini, soldatini, giochi di fantasia, bambole e peluche con l’aggiunta di una parte speciale dedicata all’Ingap (Industria nazionale giocattoli automatici Padova)».

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