NEL CUORE DEL TIFO dall’inviato ANDREA IANNUZZI

Barrafato, Sergio e Francesco, con il cognome scritto sulla maglia e in mano il sudatissimo e costoso pacchetto – volo e biglietto, mille euro abbondanti – che li catapulta all’Olympiastadion dalla valle dei templi, passando per Torino: «È la nostra prima finale di Champions, ma di finali e coppe ne abbiamo viste altre. Viaggi lunghi, ma per la Juve questo e altro».
C’è chi ha fatto di peggio, o di meglio, per esserci qui a Berlino. Niccolò De Marchi, veneziano di Chioggia, aveva giurato via Twitter – prima della semifinale con il Real – : #seandiamoinfinale ci vado a piedi. La Juventus lo ha preso quasi in parola, gli ha dato una bicicletta e gli ha detto pedala. Niccolò non se lo è fatto ripetere: la sua strada per Berlino è durata 10 giorni, con un’auto al seguito per aiutarlo a superare le Alpi e la forza dei suoi polpacci lungo i saliscendi della Mitteleuropa.
Parte da lontano anche la strada di Walter, da Forlì, in coda davanti al Champions League Store sotto la porta di Brandeburgo, dove con 30 euro porti a casa la maglietta souvenir della finale. Lui addosso ha la maglia di Tevez e al collo una sciarpa lisa, mezza strappata. Quella sciarpa ha trent’anni, viene dall’Heysel e Walter è qui come tanti altri per fare pace con la memoria, con il ricordo di quella notte assurda di Bruxelles. «Questa è la mia seconda finale, ho dovuto tribolare parecchio su internet per avere un biglietto ma ne valeva la pena. Ora siamo qui e incrociamo le dita». Certo, quando sulla Friedrichstrasse vedi i drappelli di tifosi catalani passare con quei nomi stampati sulla schiena – Messi, Iniesta, Suarez – un pochino li invidi, perché leggi nei loro occhi la consapevolezza di essere favoriti. Ma nessuno dei 30 mila juventini che sciamano per la capitale tedesca pensa in cuor suo di tornare a casa sconfitto. Lo capisci in metropolitana, quando nella carrozza stipata di sciarpe bianconere parte il coro «che ce frega di Leo Messi, noi c’abbiamo Padoin, Padoin».
Parte da Rimini la strada di Daniele. Rimini, la città dell’esordio in serie B nella tarda estate del 2006: nove anni per tornare in cima all’Europa, per arrivare al maestoso Olympiastadion ricominciando da quel piccolo stadio di provincia intitolato a Romeo Neri, campione olimpico di ginnastica che a Berlino gareggiò anche se con poca fortuna, nel 1936.
Frankie invece è partito all’alba da Mondovì e adesso è un po’ stanco: ha otto anni, è alla sua prima grande trasferta e il papà teme che possa addormentarsi sul più bello. Ma sa che non sarà così e Frankie si porterà a casa un grande ricordo, a prescindere dal risultato.
Intorno al villaggio della Champions League si aggira anche un gruppo di ragazzi cinesi, tutti in maglia bianconera: pensi mamma mia quanta strada hanno fatto, ma l’equivoco dura poco: sono tutti di Torino, sono cresciuti a riso e Juve e sono qui per fare festa. Come Dario, di Alessandria, uno dei fortunati che è riuscito ad avere un biglietto senza passare dalle forche caudine della Francorosso Italia, l’agenzia viaggi più odiata del momento, nonostante la gentilezza dello staff che accompagna a Berlino le decine di voli charter e le centinaia di pullman. Alla richiesta di un pronostico, Dario alza gli occhi al cielo: «Non succede, ma se succede...». «Carpe diem» gli fa eco Paolo, di Treviso, che ha colto l’attimo fuggente di questa finale insperata per marcare il suo primo timbro in Champions League.
È come se questa sera i tifosi della Juve pensassero tutti insieme “podemos”, che poi è un omaggio ad Ada Colau, la nuova alcaldesa (sindaca) di Barcellona. E a proposito di strade, tutti qui a Berlino hanno in testa le parole di capitan Buffon, all’indomani del sorteggio dei quarti che assegnò alla Juve il Borussia: per andare a Berlino si passa da Dortmund.
Ed eccoci qui dunque, con la coreografia studiata nei dettagli, il bianco che abbraccia il nero e l’inno della Champions che si alza nel cielo. È stata una bellissima festa, fianco a fianco con i sorridenti catalani, ma ora si gioca e si soffre, ci si arrabbia e si esulta. E quando l’arbitro fischia la fine, quando i giocatori bianconeri sconfitti vengono sotto la curva a ringraziare mentre il Barcellona festeggia e alza la coppa, l’applauso è lo stesso che si sarebbe tributato ai vincitori: ci si guarda tra sconosciuti, con gli occhi stanchi e lucidi, e si pensa che ne è valsa la pena comunque, che tornando a casa si potrà dire con orgoglio: «Io c’ero, a Berlino».
@Aiannuzzi
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