Padova, 30 anni fa la promozione in serie A

L’ex allenatore che guidò i biancoscudati nel massimo campionato, Mauro Sandreani, ricorda i momenti di quella indimenticabile stagione 

Stefano Edel
32 anni fa il Padova approdava in serie A (Foto Trambaiolo / Santandrea Photo)
32 anni fa il Padova approdava in serie A (Foto Trambaiolo / Santandrea Photo)

Mauro Sandreani, sono passati tre decenni da quel 15 giugno 1994 allo stadio Zini di Cremona, quando il Padova, battendo il Cesena 2-1, conquistò la promozione in Serie A dopo 32 anni. Il primo flash che le viene in mente?

«Il pre-partita. C'era molta tensione. Avevamo faticato parecchio ultimamente, il fatto di non aver vinto a Bari la gara conclusiva del campionato ci aveva un po' condizionato sul piano dell'autostima e quindi eravamo consapevoli di dover giocare un incontro perfetto. Quando poi ci trovammo davanti allo stadio pieno di tifosi padovani, fu come se avessimo ricevuto una forte iniezione di fiducia».

Qual è l'immagine più bella che si è portato dietro dopo il fischio finale dell'arbitro Ceccarini?

«L'apoteosi. Ci eravamo scottati troppe volte in precedenza, temevamo che ci aspettasse l'ennesima delusione, per cui vedere tutta quella gente esultare, piangere di gioia, urlare di felicità mi resterà sempre impresso nella memoria».

Ci sarà però un momento personale particolare, che non ha dimenticato?

«Sì, uno ce l'ho. Dopo un paio d'ore dall'epilogo del match, aspettando che un paio di giocatori espletassero le formalità del doping, andai su in tribuna, completamente deserta, e lì trovai Ennio Dal Bianco, il nostro portiere di riserva, che guardava il campo. Gli domandai che cosa stesse facendo e la sua risposta fu emozionante: “Mi voglio riempire gli occhi di questa immagine perché me la porterò dietro per tutta la vita”. E ci mettemmo uno vicino all'altro, proprio per riempirci gli occhi di quello stadio vuoto, senza tifosi, dove si era realizzata l'impresa».

Era un mercoledì e faceva molto caldo. Avreste dovuto giocare il sabato precedente, 11 giugno, invece la società riuscì a far spostare la data dello spareggio. Quattro giorni in più, necessari a recuperare forze ed energie.

«Furono fondamentali. Subito dopo Bari, ci spostammo a Desenzano per il ritiro, visto che si sarebbe dovuto affrontare i romagnoli di lì a qualche giorno. In realtà, con il rinvio della data, m'imposi con la società e lo stesso ds Aggradi liberando i ragazzi per 48 ore e mandandoli a casa. Bisognava staccare la spina. Ci rivedemmo a Desenzano, molto “spurgati” dalle nostre paure e cominciammo a preparare la partita come piaceva a me. Forse quel rinvio fu determinante».

Un trionfo straordinario per la sua carriera, ma quanta importanza ebbe la figura di Gino Stacchini per lei? Il collega più... anziano che doveva fungere da supporto al mister alle prime armi.

«Gino era la saggezza, io a quel tempo ero molto istintivo, lui riusciva a smussare certe mie spigolature. Anche nello spogliatoio gettava acqua sul fuoco, specie se il sottoscritto partiva per la tangente. Ci volevano l'uno e l'altro di noi due. I ragazzi furono eccezionali perché capirono e questo cementò molto il gruppo. Un gruppo di famiglia, non c'era un rapporto allenatore sopra il piedistallo e squadra sotto. Vivevamo tanto anche il rapporto fuori dal campo. E' stata fondamentale pure la figura di Aggradi, ha fatto molto per me e per la squadra, e io credo di aver fatto molto per lui, perché gli ho insegnato il calcio moderno. In pochi giocavamo a zona, adesso è facile ma una volta era assai complicato. Piero (Aggradi, ndr) lì per lì non accettò, poi gradualmente cominciò a capirne i meccanismi e gli piacque».

Riviviamo brevemente quella partita: Hubner segna grazie ad un gentile omaggio della difesa, poi il pareggio di Cuicchi con una rovesciata spettacolare. Andaste al riposo sull'1 a 1, e il Padova venne fuori nella ripresa, sino al gol del trionfo di Coppola.

«Sì, e questo grazie ad un'ottima condizione atletica. Il gol di Maurizio fu una liberazione. Gli ultimi minuti soffrimmo, ma una sofferenza dettata più da vecchie paure che in realtà dai pericoli creati dal Cesena, che buttava la palla dentro, con tutti quei cross. Sembrava di giocare a flipper. Poi Bonaiuti si superò sulla punizione di Dolcetti, evitando il 2 a 2, ma il rischio arrivò da una palla inattiva e non su azione».

Quant'è cambiato il calcio rispetto ad allora?

««La Serie B aveva uno spessore diverso rispetto ad oggi. Era un campionato con giocatori forti e solidi, il fatto di esserci imposti per due anni di fila, perché la stagione precedente non andammo su per un punto, quello di Lucca, dimostrò che non eravamo una meteora. Quando la società – e di ciò vado fiero – mi chiese un sacrificio, Del Piero e Di Livio sarebbero stati ceduti, risposi che non ci sarebbe stato alcun problema, avrei fatto con Pellizzaro. E Lele fu una risorsa importante».

In 30 anni il Padova ha disputato due tornei di A con lei, 8 di B, ben 19 di C e 1 di D. Il prossimo sarà il ventesimo torneo in terza serie. Non le mette un po' di tristezza tutto questo?

«Mi piacerebbe vederlo ritornare là dove i tifosi meritano, almeno passare per la B. Le crescite, tuttavia, sono graduali e non è facile vincere, soprattutto dal basso. Con determinate aspettative, come ha una piazza del genere, dovresti allestire squadre forti. Eppure ci vuole pazienza. Io posso solo fare il tifo».

Non ci sarà per l'amarcord celebrativo all'Appiani.

«Non ce la faccio. Sono entrato nello staff di Antonio Conte al Napoli e ho un sacco di lavoro da svolgere. Ma idealmente sarò con i ragazzi e con tutti i tifosi biancoscudati».

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