Petrin, cacciatore di talenti «I nostri ragazzi? Distratti»

Fa la spola tra Brasile e Paesi slavi: «Lì i giovani hanno ancora fame e ambizioni Se l’Italia vuole restare competitiva abbatta le barriere e naturalizzi i giocatori»

PADOVA. L’estate, per gli amanti dell’arte pedatoria, è sinonimo di calciomercato. Dalla Serie A alla Terza categoria si tratta e si discute, si promette e si annuncia, nella speranza che il “pezzo da novanta” faccia innamorare i tifosi e collezioni prestazioni da nove in pagella. Ma se, nei dilettanti, il dirigente di turno può chiudere la trattativa più complicata con un messaggio su WhatsApp, lo stesso non si può dire dei “pro”, dove operano a ritmi serrati i direttori sportivi e, soprattutto, i procuratori. Con l’uscita di scena della Seconda Divisione (avvenuta nel 2014), però, anche la Serie D è entrata nel “calcio che conta”. Non a caso, moltissimi giocatori professionisti, appena svincolati o bloccati da intemperanze o infortuni, decidono di sposare i progetti delle società dell’ex Interregionale. Abbiamo parlato di questo – e di molto altro – con l’Agente Fifa Marco Petrin, padovano doc, impegnato attualmente in intermediazioni fra A e B oltre che nella ricerca di giovani talenti in Sudamerica.

Marco Petrin, cosa spinge un calciatore professionista ad accasarsi in Serie D?

«Penso che sulla scelta incida lo scarso appeal della C. D’altra parte, le società facoltose sono poche mentre le altre sopravvivono. Al contrario, in D, non ci sono tutti gli adempimenti fiscali del professionismo, non pochi presidenti hanno disponibilità e sono in grado di pagare i giocatori. Ricordiamoci che in C tantissimi calciatori sono al minimo federale (circa 26.000 euro lordi, ndr) perché le società non riescono a dare di più. Proprio non capisco perché in quarta serie si voglia a tutti i costi vincere il campionato sapendo che, una volta saliti nei professionisti, dovranno patire le pene dell’inferno».

Quindi, in un certo senso la Serie D conviene…

«Al calciatore, in alcuni casi, sì. Ma è una categoria che richiederebbe maggiori controlli sotto vari profili. E poi c’è quella regola degli “under” che spesso crea un mercato parallelo: finisce che un giocatore ha richieste finché è nel range di età, poi sparisce dai radar. Ecco perché non si premiano i più forti. Dal prossimo campionato ci saranno le cosiddette “squadre B”».

È una riforma che la convince?

«Innanzitutto bisogna vedere quante società le iscriveranno perché 1,2 milioni di contributo straordinario sono una bella cifra per chiunque. Un onere di questo tipo se lo possono permettere Juventus, Inter e poche altre, che potrebbero sfruttare l’occasione per tenersi in casa i più talentuosi. Su 30-35 giocatori nel giro della Primavera o della Berretti troveranno spazio nella squadra B in 25, gli altri verranno mandati in prestito in C invece che in D. In ogni caso, non penso che questa riforma cambierà qualcosa a livello tecnico. Un giovane, se è forte, in prima squadra ci va anche a 16 anni. “Gigio” Donnarumma ne è l’esempio lampante».

Quali consigli può dare un agente al giovane professionista che non trova spazio in Prima squadra?

«Dopo 25 anni di esperienza nella professione, posso dire con tranquillità che, con il proprio assistito, bisogna essere sinceri. Se, a 24 anni, un ragazzo non si è ancora affermato a buoni livelli, il consiglio che gli do è quello di trovare un lavoro e giocare a pallone part time, per divertirsi. Provare a piazzare un giocatore senza prospettive a destra e a manca è una perdita di tempo e di soldi per lui e per il suo agente. Posso capire, tuttavia, che per un procuratore alle prime armi avere un assistito fra la C e la D sia un traguardo»..

Lei è attivo in Brasile nella ricerca di talenti. I giovani “carioca” hanno davvero qualcosa in più rispetto ai nostri?

«Hanno fame e ambizione. Iniziano a giocare sognando di volare in Europa e quando ne hanno la possibilità vengono qui per 500 euro. Lo stesso si potrebbe dire dei giovani sloveni, croati e degli altri Paesi slavi, che l’ambizione e la forza di volontà ce l’hanno nel sangue. Noi eravamo così 30 anni fa. Ora, con il benessere, i nostri ragazzi hanno mille distrazioni. E non sto parlando soltanto di videogiochi o smartphone, ma anche delle vacanze al mare e alle sciate in montagna, alle quali nessuno rinuncia più per il pallone».

Nell’affermazione di un giovane calciatore quanto può incidere la famiglia? Che rapporto si instaura fra questa e l’agente?

«Quanto ci sono i genitori tifosi è impossibile collaborare, non danno serenità al ragazzo caricandolo di pressioni e di aspettative: vedono in lui una possibilità di riscatto sociale. Le famiglie lucide e obiettive sono sicuramente d’aiuto a chi assiste il ragazzo, che comunque ha il dovereo di non illuderli».

L’Italia tornerà ad essere una fucina di talenti?

«Sì, perché ci sono tradizione calcistica e tecnici preparatissimi, ma se ne conteranno sempre meno. Ecco perché penso che, invece di chiuderci in casa, dovremmo abbattere le barriere naturalizzando i giocatori di altre nazionalità. Basti pensare al Belgio e alla Svizzera: quanti cognomi palesemente stranieri stiamo vedendo ai Mondiali in Russia nelle loro formazioni? Se vogliamo sopravvivere nel calcio moderno dobbiamo lasciar perdere nazionalismi e steccati.

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