«Rifiutai l’Inter per portare il Padova in A»

Nanu,ricordi e speranze: «Quando andai via promisi: tornerò a indossare quello scudo»
Di Stefano Volpe

PADOVA. Anche i Nanu crescono, ma i sogni non hanno età. Giuseppe Galderisi ha compiuto 50 anni, i capelli sono più grigi, gli occhi invece non hanno perso un filo della loro brillantezza. La stessa capace di ammaliare il veneto calcistico, partendo da lontano, facendosi desiderare e non smettendo mai di viaggiare.

«Ho iniziato a girovagare quando ero in fasce», inizia il suo racconto Galdersi. «A sei mesi mi sono trasferito da Salerno a Trecasali in provincia di Parma, perché mio padre, carpentiere, aveva trovato lavoro lì. In prima media torno a Salerno, mi chiamavano “Peppe U’ Parmense”. Enzo Campione mi arruola nel Vietri-Raito, squadra che aveva agganci importanti con le big di serie A. Faccio un provino. A vedermi c’era Cestmir Vycpálek, lo storico osservatore della Juventus. Nonchè zio di Zeman, al punto che il boemo ripete che quel giorno c’era anche lui. Io non ricordo. Una cosa che ricordo bene, invece, è che non fui contento della mia prova».

Non così Vycpálek che la chiamò in bianconero.

«Avevo 14 anni, ma nessun dubbio: volevo andare a Torino. Mamma piangeva, papà mi incoraggiava. Mi sistemo a Villar Perosa, quartier generale juventino. Mattina scuola, pomeriggio allenamenti. L’anno successivo mi alleno già con la prima squadra».

Come fu l’impatto?

«Una palestra di vita. Mi trattavano tutti come il ragazzino da crescere, insegnandomi valori e cultura del lavoro. Zoff e Scirea mi volevano seduto con loro e le rispettive mogli al ristorante. Diventai grande grazie anche a questo».

Piccolo excursus: è ancora così nel mondo del calcio?

«Io a 18 anni andai da Boniperti per firmare il primo contratto. Furino mi disse: entra e non dire niente. Così feci, non sapevo neanche la cifra. I giovani di adesso vogliono tutto subito, non sanno aspettare. La colpa, però, è della mia generazione. Gente come me, che ha imparato tutto da uomini come Zoff e Scirea, non è riuscita a trasmettere fino in fondo quei valori».

Quando nacque il soprannome Nanu?

«Non ero io l’originale. Franco Della Monica, salernitano, era stato chiamato alla Juve un paio d’anni prima di me. Lo chiamavano Nanù, con l’accento. Il soprannome lo trasferirono a me. Non voleva dire solo basso, ma furbo, scaltro».

Per lei anche precoce...

«A 17 anni esordisco in A. La stagione successiva esplodo. Rossi era squalificato, Bettega infortunato. La Juve mi richiama dal Viareggio e rifilo una tripletta al Milan. Segno sei gol, vinciamo lo scudetto, il Trap mi elogia».

A giugno ci furono i Mondiali di Spagna. Sperava nella convocazione?

«Bearzot era indeciso fra me e Selvaggi, poi optò per il più esperto. Potevo essere campione del mondo, ma non ho rimpianti. A 19 anni avevo tutta la carriera davanti. Poi giocai i Mondiali messicani. Esperienza sfortunata ma indimenticabile».

Merito della favola Verona.

«Con il ritorno di Rossi e Bettega, nell’83 la Juve mi manda in prestito all’Hellas per farmi giocare. Al primo allenamento Bagnoli scrive alla lavagna: “Questi sono i titolari, gli altri devono ambire a soffiargli il posto”. Io ero in panchina. Chiamo Boniperti, voglio andarmene. Alla fine resisto, guadagno il posto e l’anno successivo è l’apoteosi. Vinciamo lo scudetto nel campionato di Zico, Platini e Maradona. L’atmosfera era magica, piazza Bra gremita per la festa è una delle immagini più emozionanti della mia vita. Assieme a quella di Prato della Valle».

Ci arriveremo, prima c’è il Milan.

«Berlusconi nell’86, al suo primo anno da presidente, mi vuole in rossonero. Io vado,ma non faccio bene, ero ancora troppo legato a Verona. L’anno successivo agisco d’istinto, accetto l’offerta della Lazio che in B allestisce uno squadrone. A Roma ero amato, conquistiamo la promozione ma torno a Verona, anche se i fasti d’oro erano finiti. È il 1989, il mio cartellino è ancora di proprietà del Milan. Non c’è spazio per me, aspetto solo un’offerta. Ed è già ottobre».

Si presenta il Padova, inizia un amore lungo sette anni.

«I primi sei mesi in biancoscudato sono terribili. L’Appiani contestava, la squadra andava male. Poi segno due gol in trasferta che valgono la salvezza e cambia tutto. Si crea un gruppo d’acciaio, cementificato anche dalle delusioni avute nel ’91 e ’93 quando perdiamo la A all’ultima giornata. Io mi sento maturo, a Padova rinasco, segno e mi calo nel ruolo di leader. Ragazzini come Tentoni e Fontana mi prendono come punto di riferimento, mi sento come lo Zoff dei miei tempi. E il gruppo sembra quello della grande Juve. Nel ’91 mi chiama il Trap, mi rivuole come terza punta all’Inter. Rifiuto: “Mi dispiace, ma devo portare il Padova in A. Ho un patto con questa città”.

Ci riesce il 15 giugno 1994.

«Ricordo il rigore tirato a Bari all’ultima di campionato: quanto pesava quel pallone. Poi lo spareggio, per fortuna rinviarono la sfida di qualche giorno, eravamo stanchi. Ma era giusto che in A andassimo noi. Che gioia aver regalato a Padova quel trionfo. L’anno successivo giochiamo un campionato strepitoso, battendo Inter, Lazio, Juve e Milan. Poi, per qualche sciocchezza commessa, ci salviamo allo spareggio. Altra gioia immensa».

Pochi mesi e dà l’addio.

«Me ne vado a inizio ’96, Lalas mi propone quel che per me era un sogno: girare l’America per giocare a calcio. Non è un tradimento a Padova, un ciclo era finito, l’obiettivo di portare in A la squadra era raggiunto. E la società non riusciva più a reggere le spese della massima serie. Ma il giorno in cui partii, promisi: tornerò».

Sta ancora aspettando.

«Già. E per il biancoscudo sarei sempre pronto. In questa città ho messo radici, e l’affetto che ricevo, anche tuttora, dalla gente, è qualcosa di strepitoso. E credo, senza peccare di presunzione, di essermelo meritato. In campo sono sempre stato generoso, fuori sono sempre andato a testa alta. Non si diventa biancoscudati del secolo per caso».

Che rimpianti ha?

«Essere sceso in B alla Lazio l’anno dopo aver giocato un mondiale. E poi Lucca. All’89’ dell’ultima giornata nel ’91 il Padova era promosso in A. Fossimo saliti quell’anno, mi sarei rilanciato e avremmo potuto scrivere un’altra storia».

Meglio l’Appiani o il Bentegodi?

«Non posso scegliere. Quell’urlo profondo, “Nanu Nanu”, che saliva dalla gradinata Nord di via Carducci, mi rimbomba ancora in testa. E sapete dove ha perso la prima partita il Verona, l’anno dello scudetto? A Padova, in amichevole».

La sua carriera da allenatore non è così fortunata.

«Innanzitutto sono orgoglioso di aver fondato la scuola calcio con Daniele Cavalletti, gestita ora da Luca Martello e Fabio Luise. In America ho capito che volevo fare il tecnico e mi sono buttato nella giungla, senza legarmi e nessuno. I successi in questo campo dipendono dalle scelte. Alcune le ho sbagliate, in altre sono stato sfortunato. Rifiutai la B per andare a Pescara. Il mese dopo la società fallì e non avevamo nemmeno i palloni. Lo scorso anno a Trieste, i giocatori non venivano pagati e venivano a mangiare a casa mia».

Nel suo caso diremmo: canta che ti passa.

«E infatti ho inciso tre dischi: per lo scudetto del Verona, per la promozione del Padova assieme ai miei compagni e per la prima Maratona di Sant’Antonio. Adoro cantare e farlo davanti alle grandi folle mi esalta».

Nel 2004 fu salvato per i capelli dopo essere stato colto da infarto.

«Il giorno prima alla stessa ora stavo viaggiando in autostrada. Sarei morto. Il destino mi vuole ancora qui, dovrei ricordarmelo più spesso».

I sogni da esaudire per i prossimi 50 anni?

«Stare bene con i miei cari e allenare Padova e Verona. Sono ottimista, penso di poter arrivare in alto anche da tecnico»

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