16 ottobre 1943, quel treno carico di morte si fermò anche a Padova

Tre giorni dopo il rastrellamento degli ebrei nel ghetto di Roma il convoglio diretto ad Auschwitz fermò in stazione. Ecco il racconto di uno dei ferrovieri che aiutarono i deportati

PADOVA. Il 19 ottobre saranno 70 anni esatti dal giorno in cui il treno della morte si fermò tre ore alla stazione di Padova . Era partito da Roma Tiburtina ed era diretto al campo di concentramento di Auschwitz, nella Polonia meridionale: a bordo 1022 ebrei, dei quali solo 16 deportati sopravvissero alle torture dei nazisti. A bordo del carro-bestiame viaggiavano anche 200 bambini.

Tra Roma ed Auschwitz, Padova fu una delle poche fermate intermedie (le altre furono Orte, Ferrara e il Brennero), in cui i 1022 ebrei, dopo la sollecitazione dei ferrovieri, furono rifocillati. I deportati furono assistiti sia da un gruppo di Crocerossine padovane, tra cui Lucia De Marchi, e da numerosi ferrovieri dello scalo merci. Tra i lavoratori della Stazione che accorsero immediatamente a prestare aiuto agli ebrei che si lamentavano dalle grate dei 18 vagoni piombati, c'era anche Walter Chillin, un telegrafista di appena 18 anni: dopo la guerra divenne capo-stazione a Ponte di Brenta.

Ecco il suo racconto, raccolto 10 anni fa nella sua villetta alla Stanga, a pochi metri dal Ponte dei Graissi. «Il treno scortato dai militari tedeschi arrivò al binario tre - racconta Chillin-. Mi ricordo che era pomeriggio. Tutti noi ferrovieri in servizio notammo subito che quel treno aveva a bordo un fardello misterioso e nello stesso tragico. Dopo pochi minuti per tutta la stazione, che era diversa da quella attuale perché non era ancora stata distrutta dai bombardamenti americani del dicembre del 1943, si udivano distintamente le grida ed i lamenti dei deportati, che si aggrappavano alle grate dei vagoni. Da quelle finestrine coperte da strisce di ferro, che noi in gergo chiamavamo ribaltine, tentavano di farsi notare uomini e donne disperati. "Aiuto, aiuto", gridavano. "Abbiamo fame. Acqua. Acqua". Sono scene che non dimenticherò mai».

Ed il racconto dell'ex ferroviere si fa man mano più lucido. «Anch'io mi avvicinai alle ribaltine - continua - Uno spettacolo agghiacciante. Tutti i deportati avevano la barba lunga. Dai vagoni arrivava una puzza incredibile. Mi ricordo che un mio collega aveva una mela in tasca. Stava per regalarla ad un deportato, quando un soldato tedesco intervenne bruscamente. Gli strappò la mela dalla mano e se la mangiò lui. Intimò al collega di andare via, minacciandolo di farlo salire sul treno e di portarlo ad Auschvitwz». Dopo pochi minuti il treno fu spostato su un binario del limitrofo scalo merci, dove rimase circa due ore e mezza. E durante la lunga sosta all'interno dello scalo il disperato viaggio degli ebrei romani fu caratterizzato da un altro dramma nel dramma. «Una giovane donna fu assalita dalle tipiche doglie da parto- racconta ancora Chillin-. Sia noi ferrovieri ed in particolare il capo-stazione di allora, Italo Lazzarini, che le crocerossine arrivate sul posto sollecitammo subito di trasportare la donna all'ospedale civile per farla partorire in buone condizioni igienico-sanitarie. L'ambulanza arrivò dopo pochi minuti. Purtroppo i tedeschi non vollero concedere l'autorizzazione per far entrare l'ambulanza all'interno dello scalo merci, dove era parcheggiato il treno . Solo successivamente venimmo a sapere che, in quella circostanza, morirono sia la mamma che il neonato. Ma chissà quanti furono i morti sul quel treno partito da Roma ed arrivato all'interno del lager polacco dopo sei giorni di drammatico viaggio. Ma adesso basta con il racconto. Le parole non servono: è più importante la memoria».

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