A Padova lavoro agile per oltre 61mila persone,ma i bar perdono 3 milioni a settimana

PADOVA. Sono oltre 61 mila i lavoratori padovani coinvolti dallo smart working in questi ultimi mesi, una crescita esponenziale da prima dell’emergenza Covid-19 (circa il 500% su base nazionale) che modifica di fatto il modo di intendere il lavoro così come gli spazi urbani, i trasporti ed i consumi.
Secondo uno studio di Confesercenti del Veneto Centrale solo a Padova città l’ingresso in smart working di decine di migliaia di lavoratori, l’assenza degli studenti e degli insegnanti nelle scuole come pure lo svuotamento di molti uffici, è costato e continua a costare al sistema dei pubblici esercizi 300 mila euro al giorno, 400 mila in tutta la provincia.
Un vuoto economico, fatto di tazzine di caffé mai bevute, brioche e tramezzini mai addentati, tavolini dei ristoranti deserti e buoni pasto fermi nelle casse dei datori di lavoro, che in una settimana vale in provincia oltre 2,8 milioni di euro a settimana, quasi 12 milioni al mese.
Anche le grandi organizzazioni sindacali padovane, i cui funzionari non sono passati per gli uffici delle sedi centrali durante il lockdown, ora si guardano intorno e vedono i bar e ristoranti dei dintorni falcidiati dalla desertificazione sanitaria dei mesi scorsi.
«Lo smart working è uno strumento che offre interessanti opportunità ai lavoratori, non solo in epoca di Covid-19» spiega Aldo Marturano, segretario della Cgil di Padova «ma come tutti prodotti della tecnologia e del digitale, se non governato, rischia di incrementare le disuguaglianze permettendo ad alcuni di accumulare ricchezze e lasciando altri nella precarietà e nel bisogno.
È un fenomeno che si vede a occhio nudo nell’organizzazione del lavoro ma pure guardando i bar, i ristoranti e l’occupazione in questo settore. Stesso discorso vale per le aziende di trasporto. Tutti pezzi importanti della nostra economia che non possono essere abbandonati a se stessi di fronte a cambiamenti di questa portata. Cambiamenti che vanno governati nelle aziende e sui territori ma che devono prevedere anche una visione di sviluppo più generale e condivisa».
Lo smart working offre ai lavoratori vantaggi indiscutibili, tra riduzione dei costi e dei tempi di trasporto, maggiore flessibilità nell’orario e sviluppo di una logica organizzativa che guarda più agli obiettivi che alle imposizioni gerarchiche, fino a una più agile conciliazione delle esigenze familiari con quelle lavorative, tanto più in una situazione di emergenza come quella che abbiamo vissuto in cui le scuole di ogni ordine e grado sono state chiuse, lasciando i bambini a casa.
Elementi che comportano conseguenze significative sia in termini economici sia organizzativi, con alcune aziende, soprattutto del sistema manifatturiero classico, che stanno pensando di modificare la propria struttura gerarchica, avvantaggiando alcune figure e sacrificandone altre. E tuttavia non sono poche le criticità di una modalità di lavoro che rischia di eliminare le distinzioni tra tempo libero e di lavoro, per il quale il diritto alla disconnessione è ancora troppo spesso solo un elemento di dibattito, in cui possono annidarsi modalità di sfruttamento e addirittura illeciti veri e propri ai danni delle casse degli enti di previdenza attraverso la formula, già denunciata dai sindacati, della cassa integrazione agganciata allo smart working.
«Crediamo fermamente nell’esigenza di superare i soli limiti di legge per introdurre nella contrattazione collettiva, nazionale di categoria, territoriale e aziendale il tema dello smart working» dice Samuel Scavazzin, segretario della Cisl di Padova e Rovigo. «Il diritto alla disconnessione, il tema dell’uso dei mezzi propri come connessione, elettricità, pc e dispositivi e postazioni di lavoro, la questione dei buoni pasto, il tema dell’orario di lavoro, della flessibilità e della produttività sono elementi che vanno affrontati a tutti i livelli.
In primo luogo perché la legge non può normare una serie di fenomeni che invece sono tipici del mondo del lavoro ma che si differenziano di molto da settore a settore, in secondo luogo perché la contrattazione collettiva si rinnova ogni tre anni permettendo così una maggiore aderenza alla realtà quotidiana delle regole definite insieme da dipendenti e datori di lavoro».
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