Barbona, il paese Cenerentola creato dai Morosini

L’oasi in riva all’Adige deve il nome al nobile veneziano del Seicento: ecco la storia
Barbona (PD), 21 novembre 2017. Vedute di Barbona. Nella foto: il fiume Adige scorre accanto al paese.
Barbona (PD), 21 novembre 2017. Vedute di Barbona. Nella foto: il fiume Adige scorre accanto al paese.

BARBONA. Un barbone sì, ma con la maiuscola; anche perché appartenente a una delle famiglie più doc della tradizione veneta, e veneziana in particolare: si chiama Barbone Morosini il patrizio della Serenissima.

Trovandosi in possesso di alcune case a ridosso del corso dell’Adige, nella profonda Bassa padovana, di fatto al confine con il Polesine, decide all’inizio del Seicento di allargarle e di allargarsi, trasformando un nucleo di edifici sparsi in un paese, sia pure di dimensioni lillipuziane, e che tale ancor oggi rimane dal momento che non ha nemmeno 700 abitanti, e continua a perderne ormai ininterrottamente dagli anni Settanta del secolo scorso.


Quella dei Morosini è una sorta di famiglia Agnelli della Serenissima, anzi di più: è una delle dodici cosiddette “apostoliche”, presenti a Venezia dalle origini fino all’epilogo della Repubblica, dunque per quasi un millennio. Quanto potente sia, sono la qualità e la quantità dei ruoli di vertice ricoperti a segnalarlo: quattro dogi, ventisette procuratori di San Marco, due cardinali.

Dell’epoca in cui vive Barbone, va ricordato soprattutto Francesco Morosini, uno dei grandi ammiragli veneziani, protagonista della guerra per mare contro il Turco, nominato doge: l’ultimo doge, per inciso, a cumulare la carica di capo di Stato e di comandante supremo della flotta in qualità di “capitano generale da mar”.

Barbone è di tutt’altra stoffa, e preferisce dividersi tra la vita animata della città e quell’oasi in riva all’Adige: dove, siccome i soldi non gli mancano certo anche senza coprirsi di gesta gloriose, decide, dopo aver messo su il primo nucleo del centro abitato, che non può esserci paese senza canonica, specie nel Veneto dei mille campanili.

Così mette mano al patrimonio, e a proprie spese fa erigere una chiesa, senza peraltro esagerare nei volumi, dedicandola a San Michele Arcangelo, secondo una prassi consolidata da secoli: finanziare le opere dello spirito e della religione consente di ricavare non indifferenti ritorni di immagine presso la popolazione, ma soprattutto di instaurare un utile meccanismo di do-ut-des nei confronti di Santa Romana Chiesa, all’epoca particolarmente influente.

Così Barbone, dovendo comunque fare un investimento, cerca di sfruttarlo al massimo: il sacro edificio lo fa costruire attaccato alla casa dove lui soggiorna quando passa le proprie vacanze a Barbona; e lo battezza con un pensiero per suo padre, che per l’appunto di nome fa Michele.

Bisogna dire che o è proprio in gamba, o è fortunato, perché i frutti dell’investimento li raccoglie a stretto giro di spesa: già nel 1631 la chiesetta, pur di modeste dimensioni come si può vedere ancor oggi, viene promossa al rango di parrocchiale, e posta sotto la giurisdizione ecclesiastica della diocesi di Adria, il cui territorio all’epoca supera di gran lunga quello di Rovigo.

E un secolo dopo, nel 1732, un altro Morosini, Michele, le fa fare un ulteriore salto di qualità riuscendo a farsi assegnare da papa Clemente XII le reliquie di San Giustino, tuttora conservate in un’arca all’interno della chiesa, sotto il primo altare laterale destro.

Bisogna ricordare che in quell’epoca, e già da diversi secoli, poter vantare nella propria dotazione sacra delle reliquie, è come aver trovato un remunerativo “gratta e vinci”: i Morosini diventano una vera e propria istituzione di prestigio per la piccola comunità di Barbona, che grazie a quel tesoretto diventa motivo di richiamo anche per gente di fuori; e il turismo, laico o religioso che sia, qualche traccia concreta la lascia se non altro nell’indotto.

Le cronache, attraverso i secoli, non registrano alcun evento degno di questo nome. D’altra parte, basta dare un’occhiata alla dislocazione del paese, tuttora di fatto immutata rispetto al passato remoto, per rendersi conto della particolarità della sua natura: un abitato steso per lungo quasi seguendo il corso del fiume, e diviso in due parti, la più antica con la chiesa, l’osteria e la seicentesca barchessa (residuo della villa dei Morosini), una più moderna qualche chilometro più in là, con il municipio e un pugno di case.

Certo, l’Adige che di solito scorre placido e le cui rive offrono un suggestivo scorcio naturalistico, ogni tanto assume tutt’altro aspetto, quando arrivano piene minacciose che in passato hanno causato qualche tracimazione.

Proprio per questo, già nella seconda metà dell’Ottocento sono stati allargati e rinforzati gli argini, facendoli diventare una barriera naturale di difesa per il piccolo paesino. La cui unica novità sostanziale dai tempi dei Morosini risale praticamente al 1818, quando la parrocchia viene staccata dalla diocesi di Adria per passarla in quella di Padova.

Una realtà comunque distante, visto che ci sono una cinquantina di chilometri a separarla dal capoluogo: la gente di Barbona in realtà ha sempre gravitato e gravita tuttora, per le sue faccende del corpo e dello spirito, sulla vicinissima Rovigo, una manciata di chilometri di là dal ponte sull’Adige.

L’economia del paese è sempre stata legata all’unica materia prima a portata di mano, i campi, come testimonia d’altra parte anche lo stemma comunale che reca tre spighe in campo azzurro, quasi a voler legare la realtà della terra con quella del fiume.

È stata questa risorsa a determinare la sua consistenza anagrafica: il primo censimento dopo l’unione del Veneto con l’Italia, quello del 1871, documenta la presenza di oltre 1.500 abitanti; ed è una quota che si mantiene più o meno inalterata, arrivando anche a 1.700, fino al secondo dopoguerra; quando la mancanza di alternative in zona e la progressiva industrializzazione della regione mettono in moto un esodo lento ma inesorabile, che fa scivolare oggi Barbona sotto le 700 anime.

Eppure, anche nel micro l’intraprendenza veneta riesce a piantare qualche seme: attualmente funzionano una dozzina di piccole aziende che danno lavoro a una cinquantina di persone, più qualche attività legata ai servizi. Certo, da sola la premiata ditta Morosini ai suoi tempi creava più occupazione; ma erano, per l’appunto, altri tempi.

 

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