Cadorna, il generale macellaio. Sbagliato intitolargli una piazza

A Udine piazzale Cadorna è stato trasformato in piazzale Unita' d'Italia: una decisione che deve essere replicata anche a Padova?
Luigi Cadorna
Luigi Cadorna
PADOVA. Nel 2009 pubblicammo su questo giornale una richiesta: Padova deve cambiare nome alla via Cadorna. Perché Cadorna non merita vie o piazze. La stessa richiesta avanzammo anche nel giornale della città di Udine, perché anche Udine ha un "piazzale Cadorna": e Udine ha deciso in questi giorni (ne dà notizia il "Messaggero Veneto" del 4 giugno) di togliere quel nome e chiamare la piazza "Unità d'Italia".  In Friuli Venezia Giulia la decisione è definitiva, già approvata in giunta, ora aspetta soltanto i tempi tecnici dell'attuazione.  A questo punto, si fa impellente la domanda: perché il nome di Cadorna resta presente nella toponomastica di Padova? 


Cadorna fu il comandante supremo del nostro esercito fino alla disfatta di Caporetto, che gli studiosi ritengono una conseguenza del fiaccamento e della sfiducia che la sua strategia imprimeva nei soldati. Le battaglie ordinate da Cadorna seguivano sempre la stessa tattica: attacchi frontali, i nostri soldati a scagliarsi contro le postazioni nemiche a ranghi compatti, offrendo squadre plotoni e compagnie al tiro delle mitragliatrici, la nuova terribile arma che in questa guerra ebbe il suo battesimo e di questa guerra divenne "la regina". Gli attacchi si concludevano sempre con un numero dolorosamente alto di morti, e nessuna conquista territoriale. Ma Cadorna non è mai entrato in crisi, non ha mai cambiato i suoi piani. 


Perché non teneva in alcun conto il prezzo umano che le sue direttive costavano: c'è un appunto tremendo di un ufficiale ammesso alla riunione del generalissimo dopo una sanguinosa sconfitta sull'Ortigara, che descrive il comandante supremo in preda a una "visibile lietezza". So che gli storici, interpellati su questo punto, lo scarso o nessun valore attribuito alla vita dei soldati, rispondono che quella era la scuola militare dell'Europa, non solo dell'Italia, e che nell'esercito austriaco o tedesco le cose non andavano molto meglio.  Emilio Lussu, che combatté sull'Altipiano e poi sulla Bainsizza, racconta di una battaglia in cui i nemici avanzavano al passo verso di noi a ranghi compatti, fucile a tracolla, urlando "Urrah!" e riempiendo l'aria dell'odore di cognac e la terra di cadaveri. I soldati, i nostri come i nemici, venivano ubriacati prima dell'attacco. Le zaffate di alcol provenienti dalle trincee nemiche erano il segnale che l'attacco era prossimo. Ma la coscienza che quella era una tattica suicida era già diffusa tra gli alti comandi dei nostri alleati e Cadorna lo sapeva.  A più riprese i nostri alleati s'eran dichiarati pronti a inviarci rinforzi, a patto che prima sostituissimo il comandante supremo: non erano disposti a vedere morire i loro uomini come noi accettavamo di veder morire i nostri.


Dopo Caporetto, la richiesta di mandar via Cadorna si fece più pressante, e diventò insostenibile. Gli ordini di Cadorna equivalevano a condanne a morte. Non erano operazioni militari, erano esecuzioni. Non solo i grandi ordini di battaglia, rivolti ai reparti, ma anche i piccoli ordini di controllo del terreno, l'invio di pattuglie a tagliare i reticolati nemici: sono troppe le pattuglie partite, di cui non è tornato nessuno. Il generalissimo impartiva le direttive strategiche, che poi venivano tradotte in ordini per i reggimenti, le compagnie e via via fino alle squadre e alle pattuglie: prima che il grande reparto attaccasse, bisognava che le piccole pattuglie aprissero i varchi tra i reticolati.  Per fare questo, i soldati incaricati, scelti fra quelli che i superiori odiavano e volevano punire, avanzavano strisciando fin sotto i fili e li tagliavano con le pinze, poi sempre strisciando tornavano indietro. Il nemico era allertato per stroncare queste azioni non alla fine, non a metà, ma all'inizio: le pattuglie venivano falciate appena uscivano dalla trincea. Quando il primo soldato colpito cadeva indietro, il secondo soldato aveva l'ordine di scrollarsi di dosso il cadavere e offrirsi a sua volta come bersaglio. 


Ci sono state situazioni in cui il nemico stesso provava orrore per queste facili e orrende carneficine. Francesco Rosi, filmando il libro di Emilio Lussu "Un anno sull'Altipiano", mostra gli ufficiali austriaci dritti in piedi a seguire la scena col binocolo gridando: "Basta, valorosi soldati italiani, non fatevi uccidere così!".  Cadorna spediva i nostri soldati al massacro e il nemico, stanco di massacrarli, provava pietà. E Padova si ostina a mantenere a questo comandante l'onore di una strada? Cadorna era disamato dai soldati, com'eran disamati e odiati gli ufficiali che adottavano la sua tattica. I nostri soldati consideravano i nostri ufficiali superiori più pericolosi dei nemici. E si difendevano da quelli come da questi. Non c'è nessuna possibilità di proporre o mantenere il nome del generale Cadorna a qualche via o piazza, se si conoscono i diari, le cronache delle battaglie che lui dirigeva, le ricostruzioni delle sue operazioni. 


Le intitolazioni a Cadorna sono possibili solo se chi le propone o le conserva "non sa" oppure se "approva". Ma è impossibile che ci sia qualcuno, anche uno solo, tra gli amministratori di Padova, che non conosca o che approvi questa storia, che è il recente, grandioso-funereo, passato dell'Italia. Una città dedica le sue vie ai grandi che le danno onore e a cui vuol dare onore, ai grandi di cui si vanta, la cui vita, conclusasi ieri, illumina la vita di coloro che vivono oggi. Chi dà il nome a una strada o a una piazza ammonisce chi abita in quella strada o quella piazza a vivere come lui, si presenta come modello di vita, di professione, di arte, di scienza: in questo caso, per un generale, di sapienza militare. Ma se per battezzare una strada si usa il nome di Cadorna, non c'è augurio più lugubre per l'esercito italiano.  Di Caporetto ce n'è stata una. Basta e avanza. Aver dato il nome di Cadorna a una via di Padova è stato, ieri, un errore. Mantenerlo ancora diventa, ormai, una colpa.

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