Come piccioni seduti su un ramo, il feroce umorismo di Andersson

Sarebbe piaciuto a un filosofo come Søren Kierkegaard l’apologo estremo di Roy Andersson denso di un umorismo apocalittico, di una comicità dell’assurdo molto scandinava come piaceva all’autore di “Aut aut” e dei mille aforismi. “A pigeon sat on a branch reflecting on existence” – quattro anni di lavoro, momento conclusivo di una trilogia sull’essere umano - scava sul finto buonismo degli umani, del presunto “homo sapiens”, scavalcando la narrazione tradizionale a favore di uno spaccato minimalista, dove l’ambientazione richiama la fredda Scandinavia o gli ex paesi del socialismo reale. Come dei tableaux vivants, in un grigiore diffuso, due ancor più grigi signori cercano di vendere oggetti per far divertire, canini da dracula, maschere di vecchi senza denti, scatolette che ridono. Con risultati fallimentari. E mentre tutti si complimentano al telefono con lo stato dei propri interlocutori ( “mi fa piacere che le cose vi vadano bene”), gli uomini continuano le loro inutili cattiverie, incapaci di ragionare sull’esistenza quanto un piccione seduto su un ramo. Beffandosi della storia e degli archetipi Andersson ne prende in giro gli artefici, inutili quanto i protagonisti della più anonima quotidianità, rileggendo anche momento scomodi quanto l’occupazione nazista o le guerre di re Carlo XII. Per un regista svedese il parallelo con il maestro Ingmar Bergman è d’obbligo, anche per il coincidere di alcune riflessioni sull’esistenza: ma su un punto Andersson - ha vinto il premio della Giuria a Cannes nel 2000 con “Canzoni del secondo piano” - marca una forte differenza: “Bergman non aveva umorismo”. Ipse dixit. (mi.go.)
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