Così uccidevano i serial killer della Serenissima

di Vera Mantengoli
VENEZIA
È stato appena proclamato il nome del prossimo decapitato. Il giorno e l’ora dell’esecuzione sono letti a gran voce in due luoghi che simboleggiano il potere politico e quello economico della Repubblica di Venezia, Palazzo Ducale e Rialto. Non si scherza con la giustizia, gli sgarri non scivolano nel silenzio. Il passaparola viaggia di persona in persona e, se si tratta di accuse mirate, si infila una lettera nelle bocche della verità e si attende che la magistratura dia il via alle ricerche.
Alcuni tra i più efferati delitti della storia di Venezia vengono raccontati in un libro che verrà presentato per la prima volta al pubblico il 22 marzo ore 18 alla Feltrinelli di Mestre: I Serial Killer della Serenissima. Assassini, sadici e stupratori della Repubblica di Venezia, pubblicato da Helvetia Editrice, scritto dallo storico Davide Busato con prefazione di Alberto Toso Fei.
Il periodo analizzato va dal 1500 fino alla seconda metà del 1700. Le esecuzioni si svolgono in Piazza San Marco dove, tra la colonna del Leone e quella di Todaro, viene costruito un palco. La decapitazione rappresenta soltanto il culmine di un macabro spettacolo che parte dal Ponte della Paglia: il condannato esce dalle prigioni, viene legato a un palo e portato su una chiatta lungo tutto il Canal Grande, fino alla colonna di Santa Croce, l’unico resto ancora visibile negli odierni Giardini Papadopoli. Qui gli si taglia la mano destra. Poi, lo si lega a un cavallo che lo trascina fino a San Marco dove, prima di essere decapitato, gli viene tagliata la mano sinistra.
«Ho iniziato a occuparmi di criminalità - racconta il ricercatore - per puro caso. Qualche tempo fa mi è stato commissionato dal signor Umberto Accenti una ricerca sulla genealogia della sua famiglia. Un suo avo aveva compiuto un atto di parricidio, considerato una vera e propria offesa contro il Doge, Dio e il Consiglio dei Dieci, l’organo addetto alle indagini. Ho scoperto che il materiale a riguardo era tantissimo. Inoltre ne veniva fuori una Venezia sconosciuta e inimmaginabile testimoniata con estrema precisione nei documenti».
La più sfacciata serial killer è Veneranda Porta che trasforma Dorsoduro in un vero e proprio set dell’orrore. Tutto inizia al pozzo di San Trovaso, il 14 giugno 1779. Il tronco di un corpo con le braccia, senza testa, senza gambe e senza organi, affiora lungo il canale. La gente si accalca impressionata. Non molto distante, nel pozzo della Corte di Ca’ Fondi in Campo Santa Margherita, un bacino con annesse un paio di gambe sale a galla. Nel frattempo nel Canale di Santa Chiara, vicino a Piazzale Roma, una testa galleggia tra le urla dei passanti. Cuore, polmoni e fegato vengono intanto pescati nel Canale della Giudecca. Una volta ricuciti i pezzi inizia per l’Avogador Gaetano Minotto, famoso per le sue intuizioni, la caccia all’assassino. Per conoscere l’identità del cadavere c’è bisogno di imbalsamarlo ed esporlo al Ponte della Paglia, nella speranza che qualcuno ne identifichi nome, cognome e provenienza. Alla fine tutti i sospetti ricadono su una donna,. bruttina di aspetto, ma abile seduttrice: Veneranda Porta. È lei che cerca di uccidere suo marito per ben otto volte prima di farlo a pezzi. All’inizio cerca di eliminarlo utilizzando i “soliti metodi”: un liquido estratto dai rospi, un uovo fatto bollire per tre giorni e pregno delle forze del male, l’arsenico preso da qualche farmacista, l’estratto di scorpione, ma niente. Quello non muore neppure quando cerca di somministrargli la polvere di diamanti, usata dai peggiori sicari per corrodere lentamente gli organi interni. La Porta è quindi costretta a farlo a pezzi.
Le fonti delle ricerche sono state l’Archivio di Stato e quello del Museo Correr e le biblioteche, in particolare la Biblioteca Marciana. Tra le carte Busato ha ritrovato anche indizi preservati intatti. È il caso di un piccolo foglio di pergamena trovato attorcigliato sui capelli del cadavere di Francesco Cestonaro: «Una volta soltanto i nobili potevano permettersi l’uso della parrucca - afferma il ricercatore - mentre i più poveri per fare i boccoli usavano arrotolare a mo’ di bigodini dei ciuffi di capelli attorno a dei pezzettini di carta. Alla mattina li toglievano e la pettinatura era pronta. Il corpo di Cestonaro fu trovato in un canale con i pezzettini di carta tra i capelli, prova che non era nobile e che venne ucciso di notte».
Davide Busato ha raccontato per filo e per segno i delitti che lo hanno più colpito, ma si tratta soltanto di una piccola parte dell’intero archivio. Alcuni di questi omicidi sono già stati raccontati, altri sono meno noti. Tutti, partendo dalla cronaca, raccontano di come si amministrava la giustizia. Le vicende sono narrate con estrema esattezza, utilizzando termini descrittivi tratti direttamente dai documenti, senza quindi personalizzare gli stati d’animo dei protagonisti o la definizione degli omicidi: «C’è sempre stato un aspetto dell’uomo affascinato dalla morte e dai suoi rituali - conclude l’autore - forse per controllarla e per esorcizzarla. Un tempo la parata sul Canal Grande serviva per intimorire le persone, che però non perdevano le esecuzioni, come dimostrano i diari di Marin Sanudo».
Anche il clero riserva delle sorprese. Si viene così a conoscere che nel 1659 la mano responsabile di una catena di omicidi è quella dell’abate Vettor Grimani Calergi che, per ultimo, uccide Francesco Querini della famiglia Querini Stampalia. «Per punire i Grimani - racconta Busato arricchendo la storia scritta di altri particolari - la Serenissima aveva sequestrato il palazzo, oggi sede del Casinò, mettendoci la statua di un leone, la cosiddetta moeca. Siccome i Grimani per sfregio proseguivano tranquillamente la loro parata nel Bucintoro la Serenissima rase al suolo una parte dell’edificio dove oggi c’è il giardino del Casinò. Per la terraferma diede l’ordine di trasformare i vigneti in prati, togliendo alla famiglia il potere economico»
L’abate fuorilegge fu anche l’unico a essere protagonista di un vero e proprio assalto alle prigioni, organizzato con successo dai suoi fratelli per farlo fuggire. Un poemetto del 1665 scritto di sua mano ci fa capire che si trattava davvero di un osso duro: «Non so paura un pelo, né me mette spavento, se ben contra de mi zira el so vento (…) Quanto più son battù, tanto più m’alzo».
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