Dc, il rebus di 40 anni al potere
Cacciari, Tronti e Tabacci: l'incontro a metà tra comunisti e cattolici

Metti una sera ad una conferenza sui quarant'anni di potere della Dc. Uno va ad ascoltare teste d'uovo come Massimo Cacciari, Mario Tronti e Bruno Tabacci, con la propria capoccia infarcita dei luoghi comuni seminati dal berlusconismo che domina la scena politica italiana da quindici anni a questa parte e condiziona i nostri comportamenti anche quando non governa. Chi era la Dc se non quell'imbelle partito dominato dalle correnti e succube dei comunisti, che passava senza pudore da una crisi di governo all'altra, invece di assicurare stabilità al nostro Paese come sta avvenendo oggi? Alzi la mano chi non rischia di credere a questa panzana, pur avendo già superato gli anta. Figuriamoci chi ha meno di trent'anni, non ha visto i fatti né conosciuto i protagonisti e l'unica versione di cui dispone è quella semplificatoria e manipolata della propaganda di partito. Il ciclo di incontri promosso dalla Fondazione Pellicani e dedicato alla «Grande politica», ha il merito di risalire questa china, portando la ricostruzione storica e la testimonianza diretta a contatto con il pubblico. Peccato che al Candiani di Mestre ci siano solo 140 posti a sedere, perché molta gente rimane in piedi. Massimo Cacciari, presidente della Fondazione, tocca rapidamente il problema dell'unità politica dei cattolici e la questione irrisolta del passaggio dalla prima repubblica incardinata sulla «fraterna inimicizia» tra Dc e Pci a nuovi soggetti politici di cui non si vedono se non «tentativi», anzi «conati». L'argomentare pacato di Mario Tronti, filosofo marxista, teorico e fondatore dell'operaismo degli anni Sessanta, dura quasi un'ora ma non stanca l'uditorio. Dal dopoguerra al caso Moro, la storia della Dc scorre con parole rispettose e concetti non banali: il nome non casuale di Democrazia Cristiana che rinvia al cattolicesimo democratico e alle personalità formate da una Chiesa con esperienza secolare in fatto di «popolo»; don Sturzo e la sua origine contadina che spiegano la nascita del Partito Popolare; De Gasperi che ne fa la base per la Democrazia Cristiana; la Dc degli anni '50 e la strutturazione in partito che Fanfani copia dal Pci; la nazionalizzazione e gli enti di Stato che servivano alla Dc per trattare alla pari con Confindustria; fino a Mino Martinazzoli che ritorna al Partito Popolare. Radici sempre presenti, insieme ad altre che potevano cambiare il corso della storia: il riferimento è a Dossetti. «Considero Moro e Togliatti le personalità politiche più importanti del dopoguerra, perché avevano visione strategica e capacità di realizzarla: volevano portare dentro la storia d'Italia i cattolici e i comunisti, due componenti fino ad allora escluse, prima dai liberali e poi dai fascisti. Legittimarsi a vicenda, per poi competere come forze alternative». La fine politica della Dc non è Tangentopoli con la scoperta della corruzione ma il doroteismo: il partito di massa diventa partito di quadri e di dirigenti. Esattamente quello che succede al Pci. Un'estinzione parallela. Tabacci, che ha vissuto dall'interno i fatti descritti da Tronti, aggiunge grande efficacia e presa diretta. Parla del recupero di credibilità per l'Italia di De Gasperi alla conferenza di Parigi (quel famoso «tutto al di fuori della vostra personale cortesia mi è contro»). Dei suoi 7 governi dal 1947 al 1953, che alla faccia delle banalità sulle crisi dei governi Dc, varano scelte come la riforma agraria passando sopra con lungimiranza all'opposizione di parte dell'elettorato democristiano. Il cattolicesimo politico di De Gasperi e la sua autonomia dalla Chiesa contrapposto agli «atei devoti di oggi». Tabacci era al congresso della Dc del 1979 a Roma, dove c'erano le correnti così in odio al pensiero unico di oggi: «Moro aveva il 7% dei delegati. Dal microfono si rivolse a Piccoli, con parole che scavavano: che dire del nostro segretario Piccoli, un misto di abnegazione e di opportunismo... Si scatenò un pandemonio in sala, l'insulto più tenero era "comunista". Una rissa. Il presidente lo invitava a continuare e lui zitto. Per 20 minuti andò avanti la gazzarra. Alla fine riprese: cari amici, dicevo dell'onorevole Piccoli, un misto di abnegazione e opportunismo... Moro incideva sul governo anche quando non ne faceva parte. Voi capite perché Berlusconi non è Moro».
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