Dentro la miniera d’oro di cinquemila anni fa

di Vera Mantengoli
VENEZIA
Lontana dal mondo, ma al centro del mondo. È la più antica miniera d’oro scoperta fino a oggi, ma il vero tesoro non luccica soltanto nelle vene sotterranee che hanno arricchito per secoli gli antichi abitanti delle regioni del Caucaso. Un mistero antico giace infatti diffuso su tutto il territorio della Georgia, in Russia, dove un gruppo di archeologi di Ca’ Foscari capitanato dalla docente Elena Rova, sta da anni scavando, per portare alla luce tracce della vita degli abilissimi metallurghi, lì insediati agli inizi III millennio a.C. e appartenenti alla cultura Kura-Araxes. Siamo in Georgia, la terra della Colchide menzionata negli Argonauti, a quanto riportano gli archeologi inviati in uno dei luoghi più belli del pianeta dove l’occhio si perde in sconfinati orizzonti. Qui, in mezzo a verdi pianure intervallate da montagne che celano ancora tombe monumentali o labirinti ricoperti di oro, gli archeologi passano le loro giornate immersi nel vuoto assoluto, spesso sotto un sole cocente che batte sulle loro teste, almeno un mese e mezzo all’anno, per adesso a settembre, in futuro forse a giugno. Ma il fuoco della passione batte più forte.
Quello che li spinge a sopportare tanta fatica è infatti il fascino irresistibile di sapere che sotto strati e strati di terra si possono ancora oggi trovare amuleti, pendagli, resti di abitazioni e addirittura cibo, sopravvissuto allo scorrere del tempo sotto forma di ossicini che i nostri avi si mangiavano in questi zone, magari dopo essere tornati dalla lunga transumanza che sembra aver caratterizzato le popolazioni dei siti in questione, ubicati nella zona di Shida Kartli. «Noi non lavoriamo nella miniera, ma in questa zona che per noi archeologi è una vera ricchezza – racconta la docente – perché non è ancora conosciuta. Il progetto che stiamo portando avanti con l’Università della Georgia permette agli studenti di collaborare a un lavoro nuovo con altri studiosi».
L’unica difficoltà è la lingua, ma rappresenta anche una sfida. «Quando trovi una punta di selce – racconta una ricercatrice del gruppo, Katia Gavagnin, 34 anni - e sai che ha migliaia di anni e che è stata realizzata da un uomo secoli e secoli fa è sempre un’avventura. Noi abbiamo trovato degli oggetti in bronzo, qualche spillone e qualche figura animale. Ossa umane? Ne sono state trovate in un kurgan, la tomba funeraria, ma non sappiamo ancora se fossero deposizioni secondarie o addirittura sacrifici». Qui si lavora a ritmo serrata, insieme agli studiosi del luogo, come Zurab Makaradze, famoso per aver trovato un kurgan da favola. La sepoltura in questione, tipica della cultura posteriore a quella indagata e chiamata Martqopi-Bedeni, si trova infatti a 5 metri di profondità dove giacciono i corpi dei defunti, adagiati sotto due carri di legno, conservato benissimo con fiori e nocciole. «L’idea che la gente ha degli archeologi – racconta la ricercatrice – non corrisponde proprio alla realtà. Iniziamo a lavorare alle 5 ogni giorno perché è ancora fresco e nel pomeriggio si lavora a casa per anal. izzare i resti scoperti». Quando si può parlare di casa. Spesso il gruppo si trova in luoghi sperduti dove il bagno è ancora fuori delle mura domestiche, ma per un kurgan questo e altro anche se la strada per il sogno è letteralmente sotto terra e bisogna munirsi di carta, compasso, matita, gomma, filo di piombo, metro, calcolatrice, bisturi e pennellini. «Nonostante siamo nella zona della miniera qui non ci sono molte tracce della lavorazione di oro – spiega la docente – il che getta una luce nuova anche sui rapporti di queste popolazioni montane periferiche, bravissime nella lavorazione dei metalli, con le civiltà del vicino Oriente. Di tracce macroscopiche rimane poco e per indagare le loro abitudini stiamo usando la micro archeologia».
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