Egidio Maschio e l'identità nordestina sparita

Riposi davvero in pace, perché grande dev'essere stato il suo tormento: anche se a tutti ha saputo mascherarlo fino all'ultimo
Ennio Doris e Egidio Maschio
Ennio Doris e Egidio Maschio

PADOVA. Riposi davvero in pace, perché grande dev'essere stato il suo tormento: anche se a tutti ha saputo mascherarlo fino all'ultimo. Perfino con quelli di casa, l'altra sera, è stato il solito Egidio. Ma non lo era affatto: aveva già chiuso i conti con se stesso, sapeva bene quale notte senza fine l'aspettava. Solo che quel buio oggi è anche di chi resta: ogni strada sembra preclusa, se ci rinuncia perfino uno come lui, che aveva fatto del “non mollare” il suo mantra quotidiano. E che qualche anno fa una vita l'aveva salvata, dando un posto a un disoccupato che aveva tentato di togliersela. Forse lui aveva perso ben altro: la mappa di se stesso, della propria identità, smarrita nel labirinto di un mondo del lavoro così altro rispetto a quello di cui era stato orgoglioso protagonista, in duri ma esaltanti decenni di fatica.

Nessuno si alza la mattina e dice a se stesso, all'improvviso: oggi mi ammazzo. No. Ogni suicidio è una morte lenta assorbita a piccole dosi, comincia con piccole inconsapevoli smagliature che alla fine si trasformano in uno strappo irreparabile. Quando è uscito di casa, ieri mattina, Egidio Maschio ne era pienamente consapevole: per uno della sua stoffa, non è stata una resa ma una scelta. Lo testimonia il posto stesso dove ha deciso di farla finita: quell'azienda che era stata la sua vita, diventata così grande e moderna, ma anche così diversa da quella mitica “casetta delle frese” da cui era partito mezzo secolo fa. Si è sentito magari inquilino smarrito di un mondo che ha ridotto a ferrovecchio il classico “fai-da-te” dell'imprenditore veneto. Il quale oggi deve fare i conti con una ragnatela di vincoli esterni: la burocrazia, il costo del lavoro, il fisco, il credito, un sistema Italia generoso con i mascalzoni e i parassiti, perverso con i capaci e gli onesti.

Molto si è scritto, sui suicidi degli imprenditori del Nordest: talvolta a sproposito, includendoli tutti in un’unica categoria per puro amor di statistica o per voluttà da notizia. Ma quello di Egidio Maschio ne rappresenta un’esemplare parabola; e chi voglia capirla non ha bisogno di ricorrere a qualche esperto da strapazzo, basta che si rilegga le pagine di Luigi Meneghello. Sta nel dna del Veneto profondo il valore del lavoro come fonte primaria non di “schèi” ma di identità: la soddisfazione di qualcosa creata con le proprie mani, sia esso un attrezzo o una fabbrica; l'orgoglio di un operaio che si è messo in proprio, dando un’opportunità a tanti; il ben-essere di un imprenditore che ha costruito per la propria famiglia, ma anche per i suoi dipendenti con i quali parla in dialetto, si dà del tu, ha fatto da testimone di nozze o da padrino ai figli. Quando il lavoro viene meno, quando le difficoltà diventano un Himalaya, quando tutto questo viene messo in forse, qualcosa si spezza dentro. A volte si riesce ad uscirne; altre volte si reagisce fin che si può, poi diventa un peso troppo grande per un uomo solo.

Per Egidio Maschio, la sua azienda era tutto, perché ci aveva messo davvero l'anima. Spiegava con orgoglio di conoscere uno per uno i suoi tanti dipendenti, ed era vero. Per loro, e per quella sua creatura, era arrivato a fare un passo indietro, affidando l'impresa a una gestione manageriale, nell'intento di garantirle un futuro possibile. Farlo non gli è costato sicuramente poco; forse ha pensato che in quel futuro per lui non ci fosse più posto; che si trattasse di una terra straniera, così estranea alle sue radici. E ha deciso di farsi da parte, perché arrivato al capolinea. Forse. Nessuno saprà mai davvero quali voci di dentro l'abbiano spinto a girare l'ultima pagina del suo personale bilancio. Perciò, fra le tante cose che gli sono dovute, a partire dalla gratitudine per ciò che ha fatto e ciò che è stato, la più preziosa oggi è il silenzio.

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