Famiglia di Camposampiero apre la sua casa a un profugo

CAMPOSAMPIERO. Due famiglie per Biran e Famorì. Sono diverse le madri e i padri che, insieme ai loro figli, da una settimana hanno deciso di aprire la porta della loro casa all'accoglienza di un profugo. Facendo così muovere i primi passi al progetto della Caritas battezzato "Profugo a casa mia", partito per l'accoglienza di migranti che hanno ottenuto il sì della commissione territoriale. E dunque il titolo a restare. Dopo essersi visti riconoscere o lo status di rifugiato o il diritto all'assistenza sussidiaria. Oppure, se non hanno ricevuto il sì definitivo, hanno avviato ricorso. Elisa Andrighetti di Paese (Tv), impiegata in una scuola, un marito e 2 figli di 5 e 10 anni, ha accolto in casa Biran, 19 anni, arrivato un anno fa dal Ghana. Fino alla scorsa settimana ospite del centro di prima accoglienza Caritas di Istrana. Come Elisa lo stesso ha fatto la famiglia di Bepi e Serena Faccin, lui macellaio lei casalinga di Camposampiero che hanno aperto la porta a Famorì, 20 anni, profugo del Mali, anche lui da due anni a Istrana: «La famiglia è il luogo migliore dove poter vivere la conoscenza reciproca. L'unione fa la forza. Siamo parte di una società civile e di una parrocchia», mette in chiaro Elisa spiegando che, se non esistono bacchette magiche, c'è la forza di tante strette di mano. Intanto tra le tre province della diocesi (Treviso, Padova e Venezia) hanno già detto sì all'accoglienza di 17 famiglie. Otto hanno già fatto posto ai profughi in casa. Hanno alzato la mano anche 5 parrocchie (una di Treviso città, Quinto, Cavaso del Tomba, Spinea e Camposampiero). E tre istituti religiosi (francescani a Treviso, antoniani a Camposampiero). La vita in famiglia per Biran e Famorì comincia con la sveglia del mattino per andare a scuola. Dal lunedì al venerdì frequentano entrambi i centri territoriali per sostenere l'esame di terza media. E in casa come in tutte le famiglie ci si organizza: «Biran ha le chiavi. Se rientra prima da scuola prepara qualcosa. In casa ci aiutiamo tutti», dice Elisa. Anche a casa Faccin dove l'impegno missionario non è certo l'ultimo arrivato - e già sono accolti una ragazza della Moldavia e un altro giovane della Nigeria - Famorì non si è tirato indietro: «Partecipa alle nostre attività di volontariato. Così l'esperienza di accoglienza non si limita alla famiglia», racconta Bepi, «è anche un modo per fargli conoscere altre persone. Accelera l'integrazione. Sotto lo stesso tetto le barriere dei preconcetti cadono velocemente». L'accoglienza può durare al massimo un anno. Alle famiglie viene riconosciuto un piccolo rimborso. Don Davide Schiavon, direttore della Caritas, spiega il valore aggiunto dell'accoglienza in famiglia: «Non creiamo assistiti ma persone che si integrano».
Alessandra Vendrame
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