Giacomo Poretti, le memorie prima della vita con il Trio

PADOVA. Un segnale di quanto Giacomo Poretti avesse nel sangue la voglia di scrivere un libro biografico lo troviamo in “Così è la vita”, il secondo film del trio Aldo, Giovanni e Giacomo. Lì il suo...
Di Alberto Fassina

PADOVA. Un segnale di quanto Giacomo Poretti avesse nel sangue la voglia di scrivere un libro biografico lo troviamo in “Così è la vita”, il secondo film del trio Aldo, Giovanni e Giacomo. Lì il suo personaggio, oltre a essere un maldestro poliziotto, in solitudine, nella sua camera, lontano dalla terribile sorella, impegnava le sue ore a scrivere pagine per raccontare la sua vita.

A distanza da quindici anni lo ritroviamo alla libreria Feltrinelli di Padova a presentare “Alto come un vaso di gerani” (Mondadori, 132 pp). Tecnicamente si tratta di un memoir: «A me l’ha detto il mio editore perché io mica lo sapevo che questo libro in realtà tecnicamente è un memoir. Quando ho spiegato a Giovanni che non avevo scritto una biografia ma un memoir lui mi ha mandato a quel paese».

L’autobiografia deve rispettare gli eventi, deve ricostruire i fatti, e quindi esige un riscontro oggettivo tra realtà e scrittura. Per il memoir non è così. Perché la memoria, più che ai ricordi reali, è legata all’emozione vissuta e dunque ciò che conta è la verità emotiva, non la verità fattuale.

“Alto come un vaso di gerani” è un lungo racconto di ricordi. Non a caso c’è un che di infantile nel senso alto del termine, colpiscono la fluidità e la delicatezza delle pagine.

Come mai raccontare questa parte della sua vita, l'infanzia e il mondo del lavoro, il suo paese e gli anni da operaio e da infermiere piuttosto che Milano, la scena e i retroscena della vita da attore?

«Questo libro in realtà è stato pensato come una lunga lettera a mio figlio. Nasce da quelle sensazioni e da quei pensieri che ho fatto una delle prime volte che l’ho tenuto in braccio. Ansioso quale sono, dovevo rassicurarlo e mi chiedevo come sarei riuscito a spiegargli di quanto la vita fosse questa cosa che stava provando, piena di aspetti misteriosi e non sempre facili, ma anche di quanto fosse bella».

Tra i temi che tornano nelle sue pagine c’è quello della morte, un tabù per una persona che con le sue parole è abituata a far ridere.

«Non si può non pensare alla morte. Certo non deve diventare un’ossessione. Non a caso il titolo che avevo pensato era “Che spavento la vita!” Naturalmente, l’editore lo bocciò. La questione dello spavento è un compagno di viaggio per tutto il libro. Perché tutte le volte che io, o i personaggi raccontati, cercano di pensare un po’ al senso della vita, quello che provano un grande spavento».

La migliore palestra per la scrittura è la lettura. Che tipo di lettore è Giacomo Poretti?

«Fare le classifiche è sempre difficile, e naturalmente cambiano di giorno in giorno. Diciamo che oggi metterei al primo posto “I fratelli Karamazov”, al secondo “I promessi sposi”, al terzo “Grandi Speranze” di Dickens, al quarto metterei “Oscar e la Dama in Rosa” dello scrittore e drammaturgo Eric-Emmanuel Schmitt, che nelle sue cento pagine per me è diventato un tesoro assoluto. Al quinto direi tutto Calvino, in particolar modo “Il visconte dimezzato”».

Questo libro nasce dai pensieri fatti mentre teneva in braccio suo figlio, da quel momento al libro pubblicato però sono passati sei anni.

«Per scrivere un libro oltre l'ispirazione ci vuole anche qualche cosa di pratico, anche semplicemente qualcuno che ti incoraggi. Nel settembre del 2011 a Milano si è insediato il nuovo Vescovo, il Cardinale Scola che ha organizzato cinque incontri con i vari settori: lavoro, volontariato, informazione, spettacolo e scuola. Scrissi il mio intervento e quello è stato un punto di svolta. A Milano ha avuto una grossa eco, da lì è nata anche la collaborazione con “La Stampa”».

Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova