Giorgio Saviane lo scrittore amato e dimenticato

Nacque a Castelfranco il 16 febbraio di 100 anni fa. Premi e successo ma i suoi libri sono introvabili

TREVISO. Le sue due città, Castelfranco e Firenze, gli hanno dedicato una via, eppure è vero, come dicono molti, che Giorgio Saviane, nato il 16 febbraio del 1916, è uno scrittore dimenticato. A cento anni dalla sua nascita, a 16 dalla sua morte, i sui libri risultano introvabili, anche se la Guaraldi ne sta curando l’edizione, almeno elettronica. Qualcuno dice che è uno scandalo e in certo modo lo è, se si pensa che Giorgio Saviane è stato, per almeno trent’anni, uno degli autori più conosciuti e riconosciuti della letteratura italiana. Contestato certo, e un po’ da tutte le parti, ma anche antologizzato per le scuole, oggetto di tesi di laurea e monografie (quelle di Salinari e Mancorda per esempio), usato dal cinema, senza dimenticare la presenza assidua come commentatore per i giornali.

In realtà come il cugino Sergio Saviane, con cui non andava per nulla d’accordo, anche Giorgio Saviane è stato un irregolare della letteratura, un cane sciolto, spesso polemico, controcorrente rispetto al mondo intellettuale, ma in sintonia con i lettori, specie quando, come in “Eutanasia di un amore”, raccontava il disagio psicologico dell’uomo realizzato, che viene conquistato prima e abbandonato poi da una donna molto più giovane. “Eutanasia di un amore” ha venduto negli anni Settanta più di mezzo milione di copie, è diventato un film di successo come una giovane Ornella Muti come protagonista: era il suo libro più autobiografico ma meno ambizioso.

Giorgio Saviane è uno scrittore veneto, anche se per molti versi non lo sembra: veneto quando rievoca la Castelfranco degli anni Trenta e Quaranta in “Il tesoro dei Pellizzari”; ma veneto anche quando, nel romanzo di esordio, “Le due folle” del 1957, denuncia con equidistanza cristiana tanto il collettivismo sovietico, quanto il consumismo americano.

A Castelfranco era nato e cresciuto, poi aveva studiato a Padova, al Tito Livio e alla facoltà di legge, non senza essere passato da un’esperienza in un collegio trevigiano che, stando ai suoi biografi, lo ha segnato in profondità. Dalla matrice veneta viene la dimensione religiosa della sua scrittura: costante, per quanto problematica e controversa, tanto da attirarsi le critiche del mondo cattolico ortodosso. L’anno scorso è uscito, a cura della moglie Alessandra Del Campana, un libro significativamente intitolato “Mio Dio”, che prova a metter insieme, condensati e concatenati, tutti i suoi romanzi legati al tema religioso: da “Il Papa” il suo primo successo del 1963 a “Getsemani” del 1980, da “Il mare verticale” del 1973 a “Voglio parlare con Dio” del 1996, in pratica la sua opera ultima.

Ma accanto a Dio ci sono le donne, spesso sensuali ed erotiche. Perché Giorgio Saviane, una volta scelto di abbandonare il Veneto e diventato fiorentino («per sciacquare i panni in Arno» diceva lui), si è dedicato con passione inesauribile alle donne: nella scrittura come nella vita. I suoi amici guardavano perplessi alla sua capacità di gestire più donne contemporaneamente e senza conflitti. Dietro c’era una straordinaria passione per il femminile, che faceva evidentemente perdonare molto.

Mentre si affermava come scrittore, ricevendo un Campiello, un Bancarella, arrivando finalista allo Strega, continuava a fare l’avvocato. Un avvocato di successo, a Firenze, che però lavorava solo al pomeriggio, perché di mattina faceva lo scrittore. E anche se vendeva copie e le case editrici se lo contendevano, lui continuava a dire che per rimanere liberi era meglio avere un altro lavoro, diverso da quello dello scrivere.

Gli aneddoti sulla sua vita sono molti: dalla abitudine di scegliere le camere d’albergo con la bussola in mano per trovare l’orientamento ottimale per il sonno, all’uso dell’inchiostro verde per scrivere i suoi libri. «Era un matto» dice la moglie uno che litigava ma aveva anche molti amici, e tra questi Giorgio Albertazzi, che il 25 marzo, a Castelfranco, nel tributo per il centenario voluto dalla città, leggerà brani di “Getsemani”. A una domanda fattagli da Ferdinando Camon in “Perché scrivete?”, Saviane rispondeva che «essere scrittore è una condanna simile all’abbandono estremo della gazzella nelle fauci del leone»: era il suo modo per definire la sua letteratura, fatta di grandi questioni, di un tormento esistenziale mai sanato, di una analisi psicologica a tratti estenuata, di uno stile denso che gli hanno assicurato - come diceva Giorgio Luti, suo amico e studioso - «un posto marginale, ma con una sua ragion d’essere” nella letteratura italiana».

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