I due dittatori e il complotto che poteva cambiare la storia

di Toni Sirena
Settant’anni fa, il 19 luglio del 1943, Hitler e Mussolini si incontrarono a Villa Gaggia di Socchieva, alle porte di Belluno, in quello che passò alla storia (impropriamente) come “l’incontro di Feltre”. In realtà i due dittatori, giunti in aereo a Treviso, a Feltre scesero solo dal treno per salire in macchina diretti a Belluno, dove, nella villa del senatore Achille Gaggia, uno dei capi della Sade insieme a Giuseppe Volpi e Vittorio Cini (entrambi ex ministri), si confrontarono in un colloquio durato appena tre-quattro ore al posto dei tre-quattro giorni previsti inizialmente.
Il colloquio fu un completo fallimento. Mussolini, sollecitato insistentemente soprattutto dai generali dell’esercito, avrebbe dovuto dichiarare apertamente a Hitler che l’Italia intendeva uscire dalla guerra o, quanto meno, convincerlo a trovare un accordo con l’Unione Sovietica e chiudere il fronte orientale spostando le divisioni su quello occidentale e in particolare in Italia, dove gli Alleati erano già sbarcati il 10 luglio in Sicilia. Hitler non voleva saperne e pensava, piuttosto, a mettere l’esercito italiano sotto il comando tedesco e ad imporre all’Italia una sterzata decisa con uomini più decisi e fedeli.
L’incontro si risolse in un monologo di Hitler, o meglio in una sfuriata: il dittatore nazista parlò ininterrottamente per ore, mentre Mussolini se ne rimase zitto, seduto sull’orlo di una poltrona e sofferente per un’ulcera che lo affliggeva da tempo. Le descrizioni che ci hanno lasciato i testimoni sono impietose: Mussolini aveva fatto scena muta come uno scolaretto, assentendo ogni tanto a Hitler ma senza capire davvero cosa diceva. Hitler parlò in tedesco senza traduzione, Mussolini il giorno dopo, da Roma, chiese all’interprete germanico di mandargli gli appunti che arrivarono con un aereo speciale dopo che Hitler li ebbe rivisti.
Il fallimento dell’incontro di Feltre fu decisivo per accelerare la crisi del regime che sfociò nella riunione del Gran Consiglio il 25 luglio e nell’arresto di Mussolini ordinato da Vittorio Emanuele. Insomma, sfumata ogni residua speranza di un’uscita dalla guerra concordata con la Germania, non restava che esautorare Mussolini , restituire alla monarchia le prerogative costituzionali, affidare le redini ad un nuovo governo ed avviare trattative con gli anglo-americani evitando sia la reazione dell’ala dura del fascismo sia un’insurrezione antifascista e popolare che non si sapeva dove avrebbe potuto portare.
Se questi aspetti sono ben noti, su quell’avvenimento aleggiano però ancora molti misteri. Non è chiaro quando e perché fu deciso l’incontro, chi stabilì che dovesse svolgersi in una località così scomoda da raggiungere, perché fu bloccato un progetto di attentato ai due dittatori.
Tutti gli storici sostengono che “l’incontro di Feltre” fu richiesto da Hitler solo due giorni prima e concordato con Mussolini il giorno precedente. Una ricostruzione che fa a pugni non solo con la logica (c’erano da spostare centinaia di persone e da organizzare la sicurezza e la logistica) ma anche. con i fatti. L’ordine di servizio della questura in previsione dell’incontro è datato 24 giugno. È un lungo e dettagliato documento, conservato all’Archivio di Stato di Belluno, nel quale si stabilisce, chilometro per chilometro (anzi “ettometro” per “ettometro”), quali erano i punti da sorvegliare, le case da controllare, la dislocazione di poliziotti, carabinieri, camicie nere, militi della strada ed anche delle due squadre speciali (di Hitler e di Mussolini), forte ciascuna di 200 uomini, oltre all’indicazione degli accasermamenti (scuole, palestre, caserme).
I due dittatori avrebbero dovuto pernottare in un treno speciale sotto la galleria ferroviaria di Busche, strettamente sorvegliata. Non ce ne fu bisogno, perché, contro ogni previsione, partirono prima. Per viveri e bevande ci si rivolse a commercianti locali. Nei documenti ufficiali, nemmeno in quelli diplomatici, non c’è traccia della convocazione dell’incontro prima del 17 luglio. Nei mesi precedenti, tuttavia, c’erano stati numerosi accenni ad una generica necessità di ritrovarsi dopo l’ultimo incontro che si era svolto in aprile a Klessheim nei pressi di Salisburgo.
A Villa Gaggia i due dittatori arrivarono sfiniti e sudati, coperti di polvere sotto un sole a picco. La testimonianza è di Eugen Dollmann, uomo fidato di Himmler a Roma, che scrisse un resoconto dopo la guerra. Dollmann si chiede perché proprio un posto così lontano, quando sarebbe stata più agevole una località vicina a Treviso. E sostiene che c’era una sola spiegazione plausibile: che «un audace cervello avesse nascosto truppe fidate per poter all’occorrenza catturare entrambi i dittatori e così far cessare di colpo la guerra su tutti i fronti».
Quando i tedeschi arrivarono a Villa Gaggia, scrive ancora Dollmann, tutti pensarono a una trappola: «Tolta la sicura alle pistole, caricati i mitra, i pochi fedeli si disposero, pronti alla lotta, intorno alla villa».
Anche Mussolini (“Diario di un anno”) scrive che la località era infelice ma che ormai nessuno poteva fermare la macchina messa in moto dal cerimoniale. Affermazione che suona a conferma del fatto che l’incontro non era per nulla improvvisato, frutto di una decisione presa in fretta all’ultimo momento.
A un complotto, in effetti, qualcuno aveva pensato. Anzi, l’aveva organizzato. È il terzo mistero di quell’incontro. Un gruppo di bellunesi, aderenti in parte al Partito d’Azione in parte al Pci, sapevano da tempo (almeno da maggio) che si sarebbe svolto quell’incontro e, d’accordo con le rispettive direzioni nazionali, avevano organizzato un attentato per uccidere Hitler e Mussolini. D’accordo con un gruppo di alpini reduci dalla Russia, avevano nascosto una cassa di bombe a mano. Secondo il loro piano, avrebbero dovuto penetrare nel parco della villa dalla parte che digrada verso il Piave (l’unica accessibile) e scagliarle contro i dittatori. Un attacco suicida. Che tuttavia non si concretizzò perché dai rispettivi partiti arrivò l’alt all’ultimo momento. I protagonisti: Ernesto Tattoni, Armando Bettiol e altri del Pd’A, Nino Piazza del Pci, un maggiore degli alpini, Del Vecchio. Le loro testimonianze collimano negli aspetti essenziali. Secondo Tattoni, il colpo di mano sarebbe stato collegato ad un progetto di insurrezione nazionale “antifascista e repubblicana”. Ma in quei giorni drammatici e confusi, molti progetti si accavallavano, e alla fine prevalse una soluzione che metteva insieme tutte le forze anti-regime disponibili, nessuna esclusa, dai monarchici ai comunisti. Forse per questo il progetto si arenò.
Se fosse andato avanti, e fosse riuscito, le conseguenze sarebbero state imprevedibili, ma certamente clamorose. Forse Belluno sarebbe stata rasa al suolo per rappresaglia, o forse, invece, la guerra sarebbe finita con la fine dei due dittatori.
(Toni Sirena è autore
del libro “Morte al tiranno”
ed. Cierre 2011)
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