Il giusto che accolse sette ebrei fuggiaschi

Era un ragazzetto di appena 11 anni, allora. Ma ancor oggi, che di anni ne sono passati 73, Antonio Favaro ce l’ha nitido davanti agli occhi, quel drammatico venerdì 27 aprile 1945, quando a Pontemanco vide arrivare le squadracce naziste in bicicletta, che sparando in aria bloccarono il paese e rastrellarono 70 persone: ufficialmente la Liberazione c’era già stata da due giorni, ma in giro per il Veneto pochissimi lo sapevano; e proprio in quella concitata fase si registrarono stragi ed eccidi. Sarebbe accaduto anche in questo paesino della campagna padovana, frazione dell’allora Carrara San Giorgio (Due Carrare dal 1995, dopo la fusione con Carrara Santo Stefano), se il coraggio di un parroco d’altri tempi come don Gaetano Torresin non fosse riuscita a scongiurarlo.
C’è un particolare che Antonio, falegname che gli 80 anni se li è lasciati alle spalle ma le energie no, ricorda con precisione: «Erminia Brunazzo, sorella di Guerrino, quando vide i soldati, tirò un urlo di disperazione: pensava che la sua famiglia fosse stata scoperta, e temeva le conseguenze per i suoi e per loro». “Loro” erano i sette ebrei, quattro adulti e tre ragazzi, che da quasi un anno e mezzo vivevano nascosti nella soffitta di casa Brunazzo. Essi stessi ne erano convinti, spiega Antonio: «Cercarono a loro volta di scappare, ma pur senza sapere chi fossero i nazisti li intrupparono con le altre persone, portandoli verso Carrara San Giorgio». Furono ore angoscianti, che Ida Fortini oggi ha a sua volta scolpite nella memoria per il racconto del nonno Domenico, farmacista, uno dei protagonisti della tacita rete di appoggio agli ebrei nascosti: «Una squadra delle SS, a Carrara San Giorgio incrociò un ragazzo di 17 anni, Pietro Cappello, che rovistando nella corte Vasoin aveva trovato un vecchio fucile Mauser. Convinti che stesse portando l’arma ai partigiani, i nazisti lo condussero a palazzo Talpo dov’erano di stanza, incrociandosi con la colonna in ritirata che aveva rastrellato le 70 persone di Pontemanco. Interrogarono il ragazzo per farsi indicare chi fossero i partigiani, e lui terrorizzato ne indicò quattro».
Qui i ricordi di quella drammatica giornata si intersecano con il puntuale diario tenuto da don Torresin. I nazisti volevano procedere a un’esecuzione di massa, e obbligarono le persone catturate a scavare le fosse: «Tra loro c’erano anche i sette ebrei, che rischiarono la morte proprio l’ultimo giorno, dopo essere riusciti a restare nascosti per mesi», spiega Ida. A metterli a rischio fu paradossalmente il colore della pelle: particolarmente bianca, visto che per un anno e mezzo erano rimasti segregati in una stanza. Ma proprio per quel particolare i nazisti ritennero che si trattasse dei cosiddetti “partigiani notturni”, quelli che operavano solo dopo il tramonto. Intervenne il parroco, offrendosi di prendere il posto degli ostaggi, ma i tedeschi non vollero sentire ragioni. A quel punto don Gaetano ebbe un’idea risolutiva, racconta Ida: «Corse in canonica, dove da qualche tempo era alloggiato un ufficiale medico tedesco che si diceva facesse parte dei servizi segreti, e lo portò con sé a palazzo Talpo, per fargli spiegare che da quando lui era lì non aveva visto traccia di partigiani». Così i settanta ostaggi riuscirono a salvarsi; e tra loro gli ebrei.
Quasi nessuno, a Pontemanco, sapeva di loro. Erano quattro adulti e tre ragazzi, componenti di due famiglie, Hasson e Mevorach, provenienti dal Polesine, dove si trovavano nella condizione di “internamento libero” (una sorta di arresti domiciliari odierni); scappati, venivano ricercati dai nazisti e dai repubblichini di Salò. Era stato consigliato loro di cercare rifugio a Pontemanco, un’isola socialista nel mare del fascismo. Per loro si aprirono le porte di casa Brunazzo, dove Guerrino, rimasto vedovo, viveva con la sorella Erminia e i figli Antonio e Isidoro: vennero sistemati in soffitta, e la porta che dava sulla stanza fu mascherata con uno scaffale di bottiglie. Non era facile organizzare così a lungo il rifugio, considerando che erano oltretutto tempi di razionamento e di tessere annonarie. Racconta Antonio Favaro: «Vittorio Bertin, mio futuro suocero, faceva il mugnaio e provvedeva a fornire farina e viveri. Guerrino Brunazzo pensava al latte: allora c’era il motocarro coi bidoni pieni che passava per il paese, e la gente andava a prendere il latte con bottiglie e pentole. Guerrino ne acquistava tre litri al colpo, e gli altri lo prendevano in giro: ma quanto ne bevi…». Aggiunge Ida Fortini: «Mio nonno Domenico, farmacista, provvedeva alle medicine e all’assistenza, con mio padre Giorgio; erano socialisti entrambi. E c’era don Gaetano che portava tutto il suo sostegno e teneva informati gli ebrei sull’andamento della guerra».
Antonio ricorda molto bene anche il momento in cui Reuma, figlia di Esther, una degli ebrei rifugiati a Pontemanco, arrivò nei primi anni Duemila in paese con il marito Zohar sulle tracce della madre: «Per loro il punto di riferimento erano i Bertin, ma ormai Vittorio non c’era più. Li incontrai, e dissi loro che io ero uno di quelli che vivevano in paese all’epoca, anche se non li avevo mai visti; li portai a casa, e li misi in contatto con il figlio di Guerrino Brunazzo, Isidoro, che era stato partigiano. E lui, appena la donna gli mostrò la foto della mamma, esclamò: Estika! Che era il diminutivo di Esther. Erano passati più di cinquant’anni, ma fu come se l’avesse vista il giorno prima…». I fili del passato si sono riannodati così: qualche anno dopo, la stessa Estika è tornata sui luoghi dove aveva vissuto quei drammatici mesi. E da lì si è messo in moto il percorso che un anno fa ha condotto all’inserimento di Guerrino Brunazzo tra i “giusti delle nazioni”, riconoscimento attribuito dallo Yad Vashem. Un itinerario avviato e seguito passo passo dal Comune di Due Carrare, e che domattina si concluderà idealmente con la scopertura della lapide sul muro di casa Brunazzo. Chi passerà di lì, a quel punto, non potrà non sapere.
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