Il letale cecchino Chris Kyle sceneggiato da Clint Eastwood

Vita, morte e miracoli di Chris Kyle, il più letale cecchino della storia militare americana, cresciuto a pane e patriottismo, orgoglioso alfiere del motto “il fine giustifica i mezzi”, fatto proprio dagli americani nella lotta al terrorismo. Dopo il dittico sulla seconda guerra mondiale (Flags of our fathers – Lettere da Iwo Jima), Clint Eastwood, con “American sniper”, scende di nuovo in battaglia per raccontare i mille giorni di Chris Kyle (Bradley Cooper) sul fronte iracheno dopo gli attentati dell’11 settembre e la sua progressiva alienazione dalla vita reale (quella costruita insieme alla moglie Taya - Sienna Miller- e ai suoi due figli) quale rovinoso effetto collaterale della guerra. “Nel centro del mirino” del regista i due temi, incrociandosi e sovrapponendosi, finiscono per non essere mai veramente focalizzati ma, soprattutto, lasciano nello spettatore il dubbio sul significato ultimo della parabola di Kyle. Film antimilitarista o celebrazione dell’eroe americano che, per difendere la patria, non esita a uccidere donne e bambini? La follia della guerra contro un nemico invisibile (come sembra suggerire la sequenza del conflitto a fuoco nel mezzo di una tempesta di sabbia) o il ritratto di uomo fatalmente destinato a proteggere il gregge (il popolo americano) dai lupi (i terroristi, incarnati dalla figura disumanizzata del cecchino siriano Mustafà, nemesi di Kyle)? Lo sguardo di Clint Eastwood, in realtà, non sembra dibattersi più di tanto nel dilemma, propendendo per il secondo approccio: Kyle non si mette mai in discussione, il suo straniamento viene rappresentato e risolto in modo frettoloso, la sua leggenda terrena diventa agiografia negli ultimi 5 minuti del film. Paragonato ad altre pellicole che hanno affrontato temi analoghi (“The hurt locker”, su tutti, ma anche “Nella valle di Elah”), “American sniper” rimane molti passi indietro, non solo in termini di action (tra Eastwood e la Bigelow non c’è partita), ma soprattutto sotto l’aspetto del dramma intimo e privato (qui superficialmente affrontato) dell’uomo irrimediabilmente intossicato dalla guerra. Eastwood, mosso da irrefrenabile rigurgito repubblicano, pur raccontando la storia di un cecchino non centra mai i bersagli e, per colmare i vuoti della sceneggiatura (che fine fa il fratello di Kyle?), carica il film di simbologie (il cervo, il serpente, la bibbia) e di una solennità ai limiti dell’idolatria che da un autore, capace di mettere in discussione persino il bene supremo della vita, non ci saremmo aspettati.
Durata: 132’- voto: **
Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova