IL REPORTAGE / Australia, nuova frontiera dei giovani cacciati dal Nordest

MELBOURNE (Australia). Mi hanno preso per un killer, un hit man. Deve essere per via della faccia o per i troppi film che vedo, certo che anche loro non fanno niente per aiutare. In ogni caso era per una buona causa: la ragazza, vicentina di Molvena, 26 anni, mi sembrava proprio rapita, costretta dietro il banco di un saloon a servire birra per 250 dollari alla settimana a dei bifolchi panzuti che di birra ne bevono in una sera più di quanto lei guadagna in un settimana. Il posto poi! Sembrava di essere ad Abilene, qui è tutto un Abilene, quattro case dalla facciata western messe intorno al solito maledetto incrocio, uno ogni 100-150 chilometri perse in un mare di erba secca a perdita d’occhio. Era Kilkivan, 500 chilometri a ovest di Sydney, alla parete c’era il fodero di una Mauser, al bancone un tipo macilento con barba incolta e un grembiule lercio. Poi ho saputo che era innamorato della ragazza, Giorgia per la precisione, che se l’è fatta addosso e che pensava fossi lì per portargliela via. In ogni caso ci è andato vicino: sono in Australia a caccia di ragazzi, ragazzi italiani intendo, inseguo il loro segreto, sono interessato all’arcano, alla fascinazione ipnotica che li attrae come mosche e che fa in modo che a migliaia lascino il nostro Paese e il Veneto per infilarsi in posti come questi. Non li voglio riportare a casa, sono io che devo tornare. Ma ne riparleremo.
Questo era solo un modo per cominciare e neanche il migliore forse. Sta di fatto che è notte, sono a Melbourne e uno di questi ragazzi l’ho già trovato. È mio figlio, si chiama Elia e ha 29 anni, troppi e troppo pochi, dipende da come li conti. Nel suo modo di contarli, l’età gli è cresciuta dentro come in una pentola a pressione. Ha lasciato l’Italia un anno fa per non esplodere. Giorgia l’ha fatto per il motivo barometrico contrario: viveva sospesa, in cerca della sua dimensione, ed è venuta in Australia per trovarne una, Elia voleva solo scrollarsi di dosso quella che aveva. Le due cose combaciano e forse sono le stesse. Stiamo parlando di emigranti naturalmente, la migrazione italiana più anomala da quando si conoscono le migrazioni, quella che sta svuotando il nostro paese di una generazione e che non ha nulla a che fare con la pellagra, la fame: non si va nelle americhe come ai primi del ’900, non si fugge dal gozzo del valligiano, non c’è più lo iodio e non ci si porta dietro la famiglia: i nostri ragazzi scappano da soli, sono beneducati e di buona famiglia, non se ne vanno per fame, ma per l’ angoscia e la vergogna di non poter trovare un’occupazione, traditi da un paese che mette il lavoro al primo posto nella Costituzione assieme ad altre amenità, tipo che sarà sua cura favorirli, incoraggiarli, promuoverli e altre balle varie.
L’hanno chiamata la generazione perduta, diciamo pure derubata. Anche l’ Australia ha la sua stolen generation, la generazione rubata ed è un brutto affare per gli australiani bianchi che non smettono di chiedere scusa per quello che hanno fatto agli aborigeni fino alla metà degli anni ’80, ai figli degli aborigeni : li strappavano alle loro famiglie e li rinchiudevano in istituti retti dalla chiesa, eccesso di inclusione diciamo, un po’ come noi facciamo con i nostri figli, ma all’incontrario buttandoli fuori dal paese. Elia, prima di finire qui, sostenne un esame per entrare in banca Mediolanum come promotore finanziario. Si trovò davanti tre quarantenni mediolanumvestiti, che tra il lusco e il brusco ad un certo punto gli chiesero: ma lei ha fame? Elia disse di no ma anche di sì, non capiva bene, insomma fece una pessima impressione. L’assunsero, ma sapevano già che se ne sarebbe andato: non aveva fame, non quella vera, quella cosa che assomiglia alla disperazione e che da sempre è il grande motore del mondo, la potente motivazione primordiale il solo prerequisito che interessasse veramente gli esaminatori. Per fare certi lavori che sconfinano nello stalking programmato bisogna avere fame, piazzare prodotti finanziari a casalinghe spaventate, aprire l’elenco telefonico e chiamare uno sconosciuto, tenergli il piede sulla porta quando la chiude, o peggio ancora buttare via un amico per avere un cliente, ecco per fare tutto ciò bisogna avere fame. L’antica e introvabile.
Quella che Ennio Doris apprezza e non trova più, quella che riusciva a trasformare i miserabili in grandi, che costruiva le fortune e che ora immiserisce i nostri giovani nella versione rimasta in circolazione, sfruttandoli in Italia o cacciandoli. In ogni caso è una fame farlocca, misero surrogato della fame di un tempo, incapace di evocare la potenza afrodisiaca che costringeva i nostri nonni a partire. I loro pronipoti, i nostri ragazzi ne portano solo la caricatura. Ecco cos’è questa migrazione: sentimento prima che necessità, male sociale dell’anima e per di più improduttivo, spaesamento più vicino allo spleen di un Lord Byron che a un vero passaggio in terza classe sul ponte del Titanic. Perciò sono in Australia, nel paese dove per strada tutti ti chiedono come stai e nessuno si ferma a sentire la risposta. Il posto dove i ciclisti possono andare in autostrada, ma non ci si può fare una birra per strada (la nozione anglosassone dello scandalo è puritana e pedagogicamente perseguita), dove un barista qualsiasi può bloccarti sull’uscio del suo locale se a suo insindacabile giudizio sembri troppo allegro (intoxicated dicono, non ancora ubriaco ma nemmeno sobrio del tutto, lo stato di grazia da noi universalmente gradito e apprezzato), il paese di cui sappiamo meno, con le carceri gestite da privati, che non compare nei nostri notiziari e che bellamente ricambia ignorandoci, noi e il resto del mondo. Loro sono un continente e bastano a se stessi . Sono così giovani che non hanno avuto nemmeno il tempo di farsi dei pregiudizi sugli italiani, così recenti che per inventarsi un passato degno da deprecare son dovuti ricorrere alla storia degli aborigeni, vera e vergognosa beninteso, ma che a noi europei suona come una parodia per darsi un tono e somigliare un po’ di più all’America e a noi del vecchio continente con i nostri abominevoli peccati del ’900. In ogni caso l’Australia è una manna per l’immaginazione, foglio bianco su cui ognuno può collegare ii puntini a piacere e farne il sogno desiderato. Meta proiettiva perciò sogno dei nostri ragazzi.
Sono ospite e presto me ne dovrò andare, in una casa di mattoni rossi, in una specie di Beverly Hill alla periferia di Melbourne. Qui l’affitto costa più che in centro e potrebbe essere un Aventino di Roma ma ripetuto e moltiplicato fino sfiancare ogni possibile invidia. Ci vive una borghesia satolla, con le Bmw in garage, il giardino e il campo da golf appena dietro. Ma poiché ogni corpo sano ha un punto in cui si attacca l’infezione e siccome noi non siamo tipi da Beverly Hill, ecco spiegata la nostra presenza. La casa ha conosciuto tempi migliori, si capisce, una volta era uguale alle altre, adesso deve la restante solidità ai mattoni rossi in un onorevole compromesso tra l’andare in rovina del tutto e fingere che ci viva ancora qualcuno a modo. Intendiamoci, qui siamo tutti per bene, ci sta anche mio figlio diamine, è che sono un po’ diversi. Avete presente una visione? Non necessariamente un’infezione, diciamo un difetto, un piccolo incistamento premonitore che naturalmente presto sarà isolato ed estirpato dal corpo sano, ma che magari no. Ecco, posti così esistono anche in Australia e noi non potevamo non capitarci. La casa dell’antica magnificenza è abitata in modo erratico, attualmente da Nelson che è il padrone e dalla sua ragazza Jessy che non paga l’affitto, pagano Abin di origine indiane, uno che non si vede e si fa gli affari suoi ed Elia, da domani non più perché al suo posto arriva Molly e noi ce ne andiamo nel Queensland su un furgone attrezzato per il trasporto di cose e animali, non proprio un camper, un chubby fricchettone con una doppia vistosa scritta sulle fiancate che ci annuncia quali non siamo: sandmen, ovvero uomini della sabbia. La cosa ci guadagnerà qualche entratura.
Questa mia prima intanto già ce l’ho, un posto in prima fila davanti ad un plateau vivant di specie purissima, australiani giovani, esposti come in laboratorio, Jessy che di anni ne ha 18 anni, Nelson che ne ha 23, Jacqueline fidanzata di Elia di 26, più una folla di altri che va e viene, Simon, il padre di Jessy, che dorme in macchina perché la moglie l’ha buttato fuori ed è in attesa di una più adeguata sistemazione in cella per una pena da scontare relativa a un certo suo modo di guadagnarsi la vita. C’è Taty una Twiggy di i 18 anni anoressica e spaventosamente bella che non ha un solo papà ma due da quando il suo ha scoperto di essere gay e si è messo con un giovane di appena cinque anni più vecchio di lei. Domani mattina scoprirò che mi ha dormito accanto e non me ne sono accorto. Domani mattina saprò che l’Australia paga così il prezzo per non avere memoria, innocente senza merito, noi onusti di storia ogni giorno a pagare il prezzo della nostra fedeltà a qualcuno, radici, storia o famiglia che sia, loro senza questi problemi, in viaggio con bagaglio leggero, con una colpa lieve quanto il deposito dei loro ricordi, appena accennato e non ancora accumulato. Ecco perché vivono continuamente un working progress. Ecco perché sono liberi e sanno inventarsi il presente come noi non sappiamo fare.Ascoltano la storia della mia scassatissima famiglia come una bellissima favola, sono sorpresi che Elia sia felice di andare in un camper in vacanza con suo padre. Sono gentili, indipendenti, magnifica materia prima di un paese in costante sviluppo i di cui l’85% della popolazione vive sulla costa ai bordi di un immenso spazio da riempire. La frontiera non è stata ancora tracciata, la corsa al west è in atto. Mi chiedo se i nostri ragazzi in fuga hanno il garrese giusto, se è davvero questo che vogliono. L’Australia è dura, meritocratica, le uniche corsie preferenziali aperte dal governo sono altrettanti trabocchetti egoistici, qui o porti i soldi o l’expertise necessario, ora vogliono farmacisti pare, intanto hanno bisogno di stagionali per raccogliere la frutta e come noi usiamo i neri dell’Africa loro impiegano i nostri ragazzi: tre mesi in un campo e ti guadagni il bonus per un altro anno in Australia. Va detto, Nelson non è il padrone, subaffitta. Non lo era neanche suo padre prima di lasciare la casa e andarsene a vivere in Cina con una cinese dell’età di suo figlio. Campa facendo musica irlandese, l’unica cosa che i cinesi non sanno fare da soli a quanto pare. Nelson ne ha ereditato la passione, suona al piano e intona “un bel dì vedremo”. Li vedo insieme e mi sconcerta l’intesa che hanno quei due, Elia e Nelson, uno è sicuramente australiano, ma non so chi esattamente.
(1 , continua)
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