Il volto della guerra nei carboncini di Cominetti

di Virginia Baradel
Solo l’Accademico d’Italia Filippo Tommaso Marinetti poteva esaltare il “furore dinamico e la sintesi rovente” della guerra, “igiene del mondo”, commentando i disegni di guerra di Giuseppe Cominetti, esposti al Ridotto del Teatro Quirino di Roma nel 1929. Certo le raffiche dei fucili e le granate irradiavano potenti lampi di luce e i cavalli, come impazziti, si sollevavano in aria. Ma non s’impennavano per uno scontro tra carri carichi di mattoni per costruire le periferie milanesi, come in “La città che sale” di Boccioni, urlavano di terrore, come farà quello di Guernica vent’anni dopo, e morivano straziati dalle pallottole, dalle bombe, dai fili spinati. Cominetti non era a Roma ad ascoltare il discorso del vecchio amico: un incidente in moto gli aveva procurato una paralisi che l’avrebbe portato alla tomba l’anno seguente. Ma, di sicuro, i suoi disegni di guerra non erano un anticipo di “battaglismo” futurista: erano il ritratto di una furia devastante contro l’uomo, di un puro e repentino scempio, abbozzato dall’interno dello stesso teatro di guerra con stupefacente immediatezza.
La mostra dei disegni di guerra di Giuseppe Cominetti è ora a Villa Contarini di Piazzola sul Brenta (fino al 2 giugno, a cura di Beatrice Buscaroli), voluta dall’assessore alla Cultura Marino Zorzato, nell’ambito delle iniziative della Regione per il Centenario della Grande Guerra. Quando scoppiò la guerra, il pittore piemontese si trovava a Parigi dove viveva dal 1909 con il fratello Gian Maria, poeta, scrittore e regista. Si era trasferito dopo una prima stagione ligure influenzata dal verismo divisionista di Nomellini e dalla cultura artistica tipica di quel torno d’anni che univa un decadentismo sentimentale e letterario all’impegno sociale. Ma Cominetti praticava un divisionismo tutto suo, pirotecnico, sfavillante, ondoso e sfrangiato. Più dei lavoratori-forzati della terra, amava i ballerini sulle piste da ballo. Anche per questo non esitò a fraternizzare a Parigi con Severini che nel ballo riusciva a dare il massimo dei volt al cortocircuito tra divisionismo e futurismo.
Nel crogiolo parigino delle avanguardie, dove si trovava a suo perfetto agio tanto da considerarsi “ostinatamente avanguardista”, firmò il Manifesto del futurismo di Marinetti pubblicato su “Le figaro”, ma fu un’adesione empatica più che militante, rinnovata, con un po’ più di convinzione, nel ’19 alla nascita del “Gruppo futurista genovese”. Il suo era un dinamismo pittorico che stava tutto nella foga della pennellata, nella vibrazione luministica. Cominetti aveva più del “peintre de la vie moderne”, che del rivoluzionario futurista. Rientravano nella sua modernità anche la versatilità, la prolifica attività d’illustratore, disegnatore e scenografo. Ed ecco che d’un tratto, tutta la sua brillante frenesia creativa precipita nel gorgo della tragedia della guerra.
Soldato al fronte, prima nelle Ardenne e poi sul Grappa, Cominetti vede e vive, sente e disegna in un solo moto di lacerante e sgomenta sofferenza, quel che accade sotto i suoi occhi: a un metr. o, a dieci, a cento metri di distanza. Fotografa là sul fatto, sul momento, quando la bomba scoppia, quando i soldati si scontrano corpo a corpo, quando la carneficina è in flagranza d’atto. L’esperto disegnatore conosce perfettamente la tecnica e impugna il carboncino come fosse un flash, restituendo integralmente la tranche dolorosa della testimonianza diretta, della simultaneità narrativa. I soldati sono uomini senza più sguardo, sfigurati dalla paura e dalla sofferenza; cavalli e muli non sono più bestie ma compagni di tragedia. Gambe, braccia, schiene, librati in aria come schegge impazzite nel mezzo dell’azione, acquistano una potenza espressiva non inferiore ai volti.
Poco colore: il dominio del nero non è solo tecnico è anche psicologico. L’antidoto che solleva dall’angoscia è la bellezza, è la forza di quel segno: è la sua capacità di rendere l’istantaneità del tremendo, disumano, frastuono in scena.
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