Il warrant? «Necessario per fare pace con i soci»

PADOVA. Il castello di carte crollò a fine del 1981, con la scoperta della loggia P2. Fu così che fallì il Banco Ambrosiano: il più grave dissesto finanziario mai accaduto in Italia. Fu Carlo Azeglio Ciampi, allora capo di Bankitalia, a firmare la liquidazione; poi un gruppo di banche rifondò l’Ambrosiano. Pier Domenico Gallo ne gestì il risanamento, al fianco del presidente Giovanni Bazoli.
Dottor Gallo, ci aiuta a ricordare?
«Quando l’Ambrosiano fallì, intervennero 7 banche per comperare gli attivi, non la banca, a un prezzo anche alto. Con questa operazione gli azionisti persero tutto, non senza risentimento, perché speravano nella ricapitalizzazione. Ma Bankitalia decise diversamente».
Nacque così il warrant?
«Il fallimento ebbe conseguenze tragiche sull'azionariato e coinvolse molti enti religiosi tra cui la curia di Milano. Bankitalia escogitò l’operazione warrant, ma chi gestì tutto fu Vincenzo Desario il più grande capo della vigilanza. Magari ci fosse ancora qualcuno come lui».
Cosa vuole dire?
«Avrebbe fatto meno errori clamorosi».
Il suo ruolo quale fu?
«Ero direttore generale e ricordo che si discusse a lungo su come fare la pace con gli azionisti che erano anche clienti. Bazoli voleva far qualcosa. Così studiai questa operazione con Francesco Cesarini della Cattolica. Il warrant era uno strumento americano mai applicato prima in Italia».
Come funzionava?
«Abbiamo dato la possibilità di intervenire, a tre anni, alle stesse condizioni delle banche che avevano operato il salvataggio. Fu un successo perché gli azionisti acquisirono subito un diritto. E noi, con una operazione gratis, acquisimmo 35 mila potenziali azionisti. Ma non bastò».
Serviva un altro step…
«Sì, ci fu un ulteriore passo perché quando ci trovammo con 35 mila futuri azionisti ci ponemmo il problema di come far negoziare questi titoli senza aspettare la conversione del warrant. Inventammo così un'altra operazione, sempre con Bazoli, che in questo fu geniale: il reverse merger (quando una società più piccola ne incorpora una più grande, ndr)».
Così, siete andati in Borsa.
«Avevamo una società nel vecchio perimetro, la Centrale, che era stata quotata da Calvi e che aveva la partecipazione in Rizzoli. Così, per dare uno sbocco a questi titolari abbiamo fuso Centrale, che era già quotata, con il nuovo banco Ambrosiano e di colpo i titolari del warrant diventarono portatori di un warrant di una quotata che potevano negoziare sul mercato. Il Banco Ambrosiano si quotò in Borsa e i miei successori, avendo azioni da dare in cambio nel risiko bancario, comprarono prima la Banca Cattolica del veneto poi Cariplo. Fu il momento più importante per la nascita di Banca Intesa».
Come andò la quotazione?
«Fu un'operazione difficile, i primi esercizi furono negativi perché il nuovo Ambrosiano nasceva da un fallimento. Ma la storia ci ha dato ragione».
Può funzionare il warrant con le Popolari Venete?
«Si e Atlante lo deve fare subito, domani. E' uno strumento di pacificazione sociale. Diamo a tutti gli azionisti che hanno perso il 90% la possibilità di investire allo stesso prezzo che ha comprato Atlante».
Ma sarebbe stato possibile oggi un fallimento?
«Un fallimento sarebbe stato deleterio. All'epoca non c'erano altre opzioni e fu una decisione controversa. Vicenza è una provincia ricca. Bisogna che queste banche, per avere successo, operino in contesti floridi. Per questo va fatto il warrant».
Con dealine triennale?
«Basta un anno perché poi l'azione andrà in quotazione».
Etruria però è fallita.
«Una vigilanza attenta l'avrebbe evitato».
Il ministro Calenda ha chiesto la testa di Vegas (Consob), è d'accordo?
«La vigilanza ha tutti gli strumenti per conoscere le banche che mandano prospetti mensili e aggiornamenti. Può fare sondaggi, verifiche, sanzioni. Prima interviene meglio è. Che queste banche non andavano bene si sapeva. Occorreva un approccio diverso».
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