"Io, medico che non ha più baciato la moglie per paura di contagiarla"

Vivere in ospedale all'epoca del coronavirus. Il racconto di Michele Ruol, giovane chirurgo pediatrico padovano in prima linea 
Healthcare professionals wearing protective suits and healthcare masks at work inside the isolation area of the Amedeo di Savoia hospital in Turin, northern Italy, 05 March 2020. Premier Giuseppe Conte said Thursday the cabinet had earmarked 7.5 billion euros "to support families and businesses that are facing the (coronavirus) emergency". "They are extraordinary and urgent measures", he said. "On the deficit there has not been any leap into the dark", he said, and stressed "the EU will understand"..ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO
Healthcare professionals wearing protective suits and healthcare masks at work inside the isolation area of the Amedeo di Savoia hospital in Turin, northern Italy, 05 March 2020. Premier Giuseppe Conte said Thursday the cabinet had earmarked 7.5 billion euros "to support families and businesses that are facing the (coronavirus) emergency". "They are extraordinary and urgent measures", he said. "On the deficit there has not been any leap into the dark", he said, and stressed "the EU will understand"..ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO

la storia

«Non ho più baciato mia moglie». È passato più di un mese da quando, un venerdì sera che a molti sembrò infinito, il nuovo coronavirus ha fatto irruzione nella nostra quotidianità: un mese che ha cambiato le vite di tutti, ma soprattutto di chi porta un camice bianco. Per loro, alla fatica delle ore in reparto, si aggiunge la consapevolezza di essere un potenziale pericolo per le persone più care.

Michele Ruol, classe ’86, è chirurgo pediatrico e sta prendendo la seconda specialità in anestesia e rianimazione. È uno dei tanti giovani in prima linea che il rettore dell’università di Padova, all’inaugurazione (in streaming) dell’anno accademico, ha definito “i nostri ragazzi del 99”. Su Facebook ha descritto le sue ultime settimane con un lungo racconto: «Cose che ho fatto e non ho fatto negli ultimi 30 giorni», è il titolo che introduce un flusso di azioni, pensieri, riflessioni, ammissioni. Emozioni contrastanti che sfilano una dopo l’altra, aprendo ora a conclusioni amare e ora ad un sorriso autoironico.

«Mi sono preoccupato per un mio colpo di tosse», scrive il giovane medico, «per un pizzicorio in gola. Ho pensato di avere la febbre, e quando me la sono misurata avevo 36.2».

Le sue giornate in trincea sono scandite dai ritmi normali, quelli della vita di sempre che però non è più la stessa. «Mi sono svegliato un po’ più tardi», racconta ancora, «perché c’è meno traffico e si trova parcheggio senza problemi. Sono entrato in casa dal garage, mi sono spogliato al freddo e sono andato subito a farmi una doccia, prima di entrare in casa. Non ho più baciato sulla bocca mia moglie. Ho fatto dei tamponi. Ho smesso di mettere le lenti e ho ricominciato ad uscire di casa con gli occhiali, perché mi proteggono di più gli occhi, e così evito di toccarmeli con le mani. Ho disinfettato le suole delle scarpe rientrando in casa. Ho invidiato chi poteva evitare di uscire. Ho portato una maschera ffp3 fino a quando mi è venuta un’ulcera sul naso. Ho cercato di tenermi il più lontano possibile dai miei figli, di prenderli in braccio il meno possibile. Li ho baciati e mi sono sentito in colpa».

Michel Ruol lavora in uno dei reparti attualmente più sotto pressione. E come tanti colleghi, in questo periodo in cui a molti sembra un sacrificio rinunciare all’ora d’aria, ha adottato ogni misura di sicurezza possibile. «Ho smesso di andare a lavoro con lo zaino», scrive ancora, «e mi sono riempito le tasche della giacca, per contaminare meno cose possibili. Ho ricominciato a mettere le lenti a contatto, perché con le maschere e le visiere si appanna tutto. Ho pensato di prendere malattia. Non l’ho fatto. Ho pensato di chiedere di andare a lavorare in un reparto più sicuro. Non l’ho fatto. Ho invidiato chi si offre volontario, e mi sono reso conto di non essere così altruista. Ho pensato di andarmene di casa per non fare del male alla mia famiglia. Non l'ho fatto, ancora. Ho fatto programmi», conclude infine, «per quando sarà tutto finito». —

Silvia Quaranta

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