Irriverenza dell'ateo metodologico

L'analisi di Giulio Giorello in «Senza Dio»
A destra la copertina del libro e Giulio Giorello filosofo della scienza
A destra la copertina del libro e Giulio Giorello filosofo della scienza
Li hanno stigmatizzati come diabolici e blasfemi quando, appena qualche secolo fa, quei "sant'uomini" dei loro avversari allestivano premurosamente per la loro redenzione roghi e manicomi. E, tanto per ribadire il concetto, perfino il salmo 14 riserva loro, senza mezzi termini, il soave appellativo biblico di "stolti». Quale ineffabile misfatto avranno mai commesso gli atei per suscitare quell'ostilità che, pur sotto larvate spoglie, persiste purtroppo ancora oggi? Il filosofo della scienza Giulio Giorello, nell'acuta e brillante analisi affidata al suo recente volume Senza Dio. Del buon uso dell'ateismo (Longanesi, pp. 230, 15 euro), sottolinea come la tempra dell'ateo rappresenti l'esatta antitesi di quella mortificante e - già secondo Nietzsche - tremenda metafora del gregge e del pastore. «Persino le pecore non sono tutte uguali» obietta a tal proposito Giorello citando John Stuart Mill, a voler puntualizzare come l'ateo, esponente di punta di quella schiera di free thinkers che «se non ci fossero bisognerebbe inventare», incarni l'orgoglio del pensiero critico inteso come quid irriducibile della dignità umana, ovvero come fiera e feconda contrapposizione alla reverenza, alla rassegnazione, all'autorità, alla proibizione e alla sottomissione (i cinque principali nuclei tematici articolati nei rispettivi capitoli del testo).  L'autore riesce insomma a squarciare finalmente la cortina di quel diffusissimo ed ipocrita fair play italico in virtù del quale perfino i pensatori che si professano laici finiscono con l'ostentare deferenza verso le insensatezze e gli arbitri del potere religioso, laddove invece all'ateo doc competerebbe, secondo Giorello, l'esatto contrario: esercitare uno sguardo disincantato e lucido sulla realtà, procedere non sulla base di certezze rivelate ed assolute ma attraverso quell'affascinante e rigoroso iter di congetture e confutazioni di cui si avvale la scienza, che rifiuta di «spiegare il naturale col sovrannaturale» (Mill) o di concepire il «mondo in sé trasformato in "cosa per noi"» (Spinoza). Ma soprattutto: denunciare a gran voce e demolire inesorabilmente quei pregiudizi oscurantisti e illiberali o quelle «favole di redenzione» attraverso le quali le teocrazie clericali da sempre mirano a perpetuare il proprio potere, temendo che la scienza possa ostacolare la loro ingerenza nella vita civile.  Coerentemente con tale proposito, Giorello focalizza nitidamente alcune ricorrenti manovre di retroguardia dell'establishment clericale contemporaneo, ovvero: diffondere il cliché della scienza come sapere puramente quantitativo, screditare con argomenti inconsistenti la teoria darwiniana dell'evoluzione, alludere con ricorrente enfasi filoclericale alle cosiddette «radici cristiane» dell'Europa, diffondere una sorta di caricatura del relativismo dipingendolo come la negazione di ogni verità, indulgere nella retorica penitenziale del dolore fisico come strumento di ascesi (alla maniera di papa Wojtyla).  Rispetto a tale attitudine ad «impugnare Dio come una clava» per comprimere le libertà del singolo, Giorello ritiene che il miglior antidoto consista proprio nell'ateismo metodologico, cioè nella scelta di «vivere senza, o perfino contro dio», alimentando in tal modo non la negazione ma la garanzia del pluralismo di tutte le fedi religiose, cioè evitando la prevaricazione di una qualsiasi confessione su tutte le altre. L'ateismo metodologico non va infatti confuso con un ateismo di stato (anch'esso, in quanto tale, illiberale) e neppure con una religione dell'ateismo alla Dawkins o alla Hitchens, giacché l'ateo metodologico non è impegnato nella dimostrazione dell'inesistenza di dio: l'onere di quest'ultima prova a-teologica competerebbe infatti non a colui che nega ma, al contrario, a chi afferma l'esistenza dell'oggetto «dio», esattamente come accadrebbe per la celebre «teiera volante» immaginata da Russell.  Dunque, contrariamente a quanto di solito si pensa, all'ateo competono per definizione l'ironia, lo sberleffo e la blasfemia, come legittimo strumento della sua funzione critica: sarà tenuto non al rispetto, bensì alla tolleranza, e dovrà astenersi dall'insulto senza però rinunciare a praticare quell'etica dell'irriverenza per cui «nessun reverendo merita reverenza». L'ateo infatti non accetta di porre la propria libertà al servizio della schiavitù o, in altri termini, indipendentemente dall'esistenza o inesistenza di Dio, egli non rinuncia alla sua «libertà di stare in piedi dinanzi a qualsiasi essere».

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