«La Chiesa senza preti un aggiornamento al passo con i tempi»

di Aldo Comello
Dal 3 febbraio al 3 marzo, alle 21 di ogni lunedì, si svolge nell’aula Morgagni del Policlinico il corso di cultura organizzato dagli ex Alunni dei gesuiti dell’Antonianum. Il confronto pone una domanda intrigante: «È concepibile un cristianesimo senza preti?».
Padre Mario Ciman, gesuita, già docente di chimica alla Facoltà di Medicina, cita un concetto che fa da vessillo al convegno, tratto dall’omelia di Papa Francesco in Santa Marta del 20 aprile 2013. Il Papa ha detto: «Pensate alle comunità cristiane giapponesi rimaste senza preti per 200 anni…Quando, dopo questo tempo sono tornati di nuovo altri missionari, hanno trovato tutte le comunità a posto: tutti battezzati, tutti catechizzati, tutti sposati in chiesa e, quelli che erano morti, tutti sepolti cristianamente. Non c’è prete… chi ha fatto questo? I battezzati!... Crediamo in questo. Che il battesimo basta, è sufficiente per evangelizzare».
Padre Ciman, sono stati i gesuiti a portare la parola di Cristo in Giappone?
«Sì, in particolare Francesco Saverio seguace di Sant’Ignazio e lui pure santo. Arriva a Goa nel 1545, successivamente è in Malacca dove incontra una comunità giapponese e questo lo induce all’attività missionaria in Giappone e alla cristianizzazione di quel paese. Che, però, in seguito si chiuderà ad ogni influenza occidentale fino al 1848 quando si riaprono i porti di quel paese lontano. Un gruppo di cappellani fa un’inchiesta tra la popolazione, domanda se preghino Dio, se credano nella Madonna. Si accorgono che il cattolicesimo è rimasto integro malgrado l’assenza di sacerdoti. È vero, basta il battesimo per garantire l’evangelizzazione».
Sul Giappone c’è un incantevole reportage di Goffredo Parise, si intitola “L’eleganza è frigida”. Affiora l’amore per la ritualità dei giapponesi, dalla cerimonia del tè all’atroce seppuku. Molti si sposano con la cerimonia cattolica perché è bella, ma vivono da shintoisti e quando muoiono sono celebrati funerali buddisti.
«Certo, ma per mantenere intatta e vitale la cristianizzazione occorrono uomini e donne di fede, non basta certo il gusto della ritualità. L’idea del sacerdozio come ponte, gradino verso l’alto è molto sfaccettata. Maria Bonafede, milanese, vice moderatore della Tavola Valdese, filosofa e teologa, parlerà il 3 febbraio di “Religioni senza clero”. Secondo il credo valdese, la predicazione, l’orientamento cristiano sono affidati a persone designate dal basso, dalla comunità. Per noi cattolici, invece, il sacerdote deve essere ordinato e ci sono due sacramenti di assoluta competenza sacerdotale: l’eucaristia e la confessione. Oggi, i parroci sono caricati di compiti che non appartengono allo scopo principale del sacerdozio, esercitano, per esempio, attività amministrative o gestiscono circoli sportivi, biblioteche, casse peote. Finalità, per carità, meritevoli, ma che potrebbero essere perseguite anche da laici. Il convegno mette a confronto relatori di diversa estrazione permettendo di analizzare il problema da diverse posizioni: Giorgio Bonaccorso è un monaco benedettino, docente di liturgia, Corrado Marucci è un gesuita, come me, matematico e teologo. Ci sono differenze di sentire e di prospettiva tra un frate, un monaco e, per esempio, un gesuita, che fa apostolato senza una divisa e senza un coro».
Un altro tema che sarà posto al centro del tavolo, è affidato a Giampaolo Salvini, rettore di Civiltà Cattolica. Riguarda l’obbligatorietà o meno del celibato dei preti. Lei che ne pensa?
«Non esiste dalle origini al Trecento nessuna disposizione che imponga il celibato. San Pietro era sposato, aveva figli, ovviamente anche una suocera, chissà se il sant’uomo andava d’accordo. È nel 350 con il concilio di Elvira, in Spagna, che viene proibito il matrimonio ai vescovi e ai sacerdoti. La chiesa orientale, invece, non ha messo il veto ai matrimoni dei presbiteri. Un esempio lampante viene dal Libano. Il Libano è un piccolo paese dove a una sottile striscia di pianura si contrappone una concentrazione di montagne. Secondo la tradizione dei cristiani maroniti del Libano, il sacerdote può scegliere tra lo status di sposato e quello di celibe. Sembra che la popolazione delle montagne apprezzi di più il prete sposato mentee in città prevale la condizione del celibato sacerdotale. Difficile dire perché. Si tratta comunque di una scelta personale. Certo, la condizione di sposato o di celibe presenta per un prete vantaggi e svantaggi: può convivere l’esistenza di una famiglia (moglie e figli) con la missione spirituale del sacerdote che ha una famiglia di fedeli? Certo, ma può comportare qualche difficoltà».
In passato la famiglia contadina con prole numerosa produceva muscoli per i campi e preti per l’altare. Oggi le cose sono cambiate e ci troviamo in forte crisi vocazionale.
«È vero, ma lasciando al singolo la scelta se sposarsi o no, questa è la soluzione giusta, secondo me, può accadere che un giovane laureato, sposato, incontri Dio e scelga di diventare prete senza abbandonare la famiglia».
Sarebbe una rivoluzione?
«Sarebbe un aggiornamento importante per una Chiesa che si muove nel nostro tempo».
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