Là dove la Serenissima separò l’acqua del Muson

Una parte va in Laguna, l’altra corre verso il Brenta e Padova
SBRISSA - FOTOPIRAN - CAMPODARSEGO - COMUNE DI CAMPODARSEGO municipio e chiesa
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Il nome di oggi è decisamente più elegante: architetto. Nella Roma di Augusto faceva tutt’altro effetto sentir chiamare questo genere di professionista “gromatico”; in compenso, aveva il vantaggio di non doversi districare nella giungla della legislazione e della burocrazia odierne. E di essere espressione di un’elevata cultura del territorio che la moderna VIA (valutazione di impatto ambientale) neanche sapeva cosa fosse, però ce l’aveva nel sangue. Basta guardare una qualsiasi mappa dell’Alta Padovana per trovarne ancor oggi traccia nel celebre graticolato romano, frutto dell’epoca di Augusto quando c’era da ricompensare i veterani del glorioso esercito mandati in pensione dopo il definitivo conseguimento della “pax romana”. Era qui che entrava in funzione il gronomico, tecnico incaricato della stesura degli insediamenti lungo i due assi perpendicolari del cardo e del decumano.


E’ ad uno di questi incroci che sorge Campodarsego, toponimo derivante dalla congiunzione dell’esistenza di un luogo disboscato e reso produttivo (il “campus”) con un corso d’acqua ancorché povero di materia prima al punto da essere spesso in secca (“arsicus”). Non comunque un ostacolo da fermare gente decisa e preparata come i romani (dell’epoca, s’intende). Già nel 74 avanti Cristo, riprendendo il percorso di un’antica pista paleoveneta che collega Padova con Asolo, viene costruita la via Aurelia, dal nome di Aurelio Cotta, proconsole nella Gallia Cisalpina; ed è attorno a questa arteria, tra il Muson Vecchio e il Brenta, che viene consolidandosi il centro di Campodarsego. Proprio il Muson segna il confine (“Cis Musonem”) tra l’agro centuriato patavino e quelli di Asolo ed Altino. La via Caltana, che rappresenta il decumano, assicura i collegamenti con la laguna e il mare.


Le invasioni barbariche seguite al tracollo dell’impero romano devastano l’intero territorio, che rinasce sotto la spinta del cristianesimo attorno a un’istituzione strategica, la pieve, luogo al tempo stesso di fede e di politica, di culto e di amministrazione, dove ci si occupa del bene delle anime ma anche di quello della società civile. Per Campodarsego, la ripresa si organizza attorno alla pieve di Sant’Andrea, di cui c’è notizia già nel sesto secolo: ad essa fanno capo, oltre alla comunità locale, quelle di Reschigliano, Fiumicello, Bronzola, Pianigale, Villanova e Codiverno. Per trovare il primo documento in cui si faccia esplicito riferimento al nome “Campodarsego”, occorre tuttavia attendere il 1190, quando si fa menzione di una “Villa Campi de Arsico”: luogo dove il potere laico rappresentato dai signorotti locali si intreccia con quello religioso, visto che nell’abitato sorge una villa di proprietà dei vescovi di Padova, che la useranno per secoli come luogo di villeggiatura.


La prima e robusta traccia laica di Campodarsego la si ritrova non molto dopo l’esordio del nome nel documento citato: ruota attorno a Speronella Dalesmanini, “donna invereconda” per citare testualmente dalle cronache dell’epoca, e che oggi passerebbe semmai come una delle animatrici di punta dei “salotti buoni”; il suo doveva essere ben frequentato, a giudicare dai sette mariti e dal non precisato numero dei partner che figurano nel suo curriculum. L’intreccio con Campodarsego è dovuto soprattutto al figlio ed erede Jacopo, cui riesce la non facile impresa di dissipare il pur cospicuo patrimonio di famiglia: sempre i diligenti cronisti del tempo riferiscono che i Dalesmanini possono andare da porta Ognissanti a Padova fino alla laguna veneta cavalcando sempre su terreni di loro proprietà.


Dopo le guerre che nel Trecento vedono Padova impegnata un po’ contro tutti a Nordest, bisogna aspettare l’arrivo della Serenissima per mettere un po’ di pace e di ordine. Aggregata alla podestaria di Camposampiero, Campodarsego usufruisce in particolare di una drastica quanto razionale opera di risanamento del territorio, attraverso interventi di bonifica e non solo, che consentono lo sviluppo di un’agricoltura basata soprattutto sulle colture del mais, della vite e del gelso. Il cantiere di maggiore importanza è quello aperto nel 1612 su decisione dei Savi alle Acque della Repubblica di Venezia, a seguito di studi accurati ma di gran lunga più rapidi di quelli attuali per le opere di salvaguardia della laguna. Viene così varata la realizzazione del “Taglio” del Muson dei Sassi, separandolo dal Muson Vecchio e portandolo a defluire nel Brenta. La situazione, d’altra parte, si sta facendo critica non solo per la zona, ma per la stessa Venezia, a causa del crescente carico di fango e di detriti che il Muson Vecchio porta con sé: “Se non si fa qualcosa, presto sentiremo le rane cantare in laguna”, annota polemicamente Marco Corner.


Certo, anche nell’epoca aurea della Repubblica ci sono le controindicazioni, a cominciare dal capitolo della sicurezza: in zona viene segnalato come molto attivo il brigantaggio, di cui solo gli austriaci riusciranno ad avere ragione, durante il loro pur breve dominio nella prima metà dell’Ottocento. E se la criminalità comune reca danno alle persone e alle case, a lasciare segni poco graditi dalla popolazione locale sul territorio ci pensano i pastori: i quali usufruendo di un antico istituto dell’epoca, il “pensionatico”, portano ogni anno le loro greggi dall’altopiano di Asiago fino agli argini del Muson, recando guasti non da poco alle campagne della zona. Grane peggiori arrivano tuttavia quando alla Serenissima subentrano prima i francesi di Napoleone e dopo gli austriaci di Cecco Beppe.


Con l’unità d’Italia, Campodarsego con l’intera Alta Padovana entra in un cammino segnato dalla miseria di fine Ottocento con il portato dell’emigrazione, dalle due guerre mondiali entrambe con pesanti ricadute nel territorio, e dalla ricostruzione fino a diventare parte integrante del boom del “modello Nordest”. Mentre dal 1961 la popolazione cresce continuamente, la cittadina vede fiorire un forte sviluppo industriale, specie nel mobile e nella meccanica, grazie all’insediamento di imprese di elevata qualificazione, a partire da uno dei casi più rilevanti di internazionalizzazione come la Carraro. Dalle sponde del Muson oggi si riesce a vedere il mondo.


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