«La mia vita è un crocevia di culture»

Jhumpa Lahiri a “Incroci di civiltà” racconta come è arrivata al Premio Pulitzer
Di Michele Gottardi
ca. 2003 --- Jhumpa Lahiri --- Image by © Christopher Kolk/Corbis
ca. 2003 --- Jhumpa Lahiri --- Image by © Christopher Kolk/Corbis

VENEZIA. Jhumpa Lahiri, una delle scrittrici giovani che più ha consolidato le promesse di qualche anno fa, è la più evidente dimostrazione di come le proprie radici culturali vadano al di là della nascita anagrafica e della residenza. Vincitrice del Premio Pulitzer per la narrativa – la prima volta di un’esordiente – Lahiri alterna attività pubblicistica (columnist del “New York Times” e da noi per l' “Internazionale”) e letteraria. Nata a Londra nel 1967 da genitori bengalesi, trasferitasi a New York dove vive, la scrittrice mostra nelle sue “short stories” o nei romanzi più lunghi una sintonia verso la cultura di un mondo, quello indiano, che per lei è un riferimento costante, pur se lontano.

Concludendo ieri sera “Incroci di civiltà”, il festival della letteratura che Comune e Ca’ Foscari organizzano per la settima volta, Jhumpa Lahiri ha mostrato un uso profondo della descrizione, che si snoda attraverso particolari minuziosi, piccole tessere di un più ampio mosaico sociale tra indiani di seconda e ora di terza generazione che si scontrano coi padri emigranti, come quello di Jhumpa, che lasciò l’India 50 anni fa, partendo da Calcutta per Londra e che poi nel ’69 ri- parte per Boston con tutta la famiglia, frutto di un matrimonio combinato, secondo la tradizione bengalese, radici che i Lahiri hanno cercato di far sopravvivere, nonostante le diverse culture imposte da altre residenzialità.

«Ancor oggi quando chiedo a mio padre - che a 83 anni ancora fa il bibliotecario all’università - perché se n’è andato, ancora non me lo sa spiegare. Probabilmente cercava altro, non gli bastava quello che aveva, come mi accade spesso». Il problema dell’integrazione pian piano viene risolto: «Per me era una doppia vita confusionale dal punto di vista esistenziale, che mi ha dato materia di scrittura. Il mio inizio è stato timido, pensavo che le cose che volevo scrivere non fossero interessanti. Dopo la laurea, però un corso di scrittura mi ha dato un gruppo di riferimento e una disciplina. Era una sfida estetica, ma anche etica in cui la distanza dentro di me dall’altro che restava fuori, dapprima sofferta, prendeva coscienza». Una scrittura che passa con semplicità dal racconto al romanzo: «Una storia è una storia: ce ne sono che richiedono lo spazio di un romanzo, altre che invece si adattano alla durata di un racconto. Ogni racconto è un mistero, uno spazio buio come una stanza dove so che c’è una storia, ma non so quali siano gli elementi. Così mi trovo a lavorare spesso in stanze molteplici, addirittura un palazzo». Da due anni Jhumpa Lahiri vive in Italia: «È una fuga, un sondaggio profondo, una ricerca di appartenza attraverso la condivisione di una lingua: non appartengo né al bengalese e nemmeno all’inglese. Avevo forse bisogno di una terza lingua, che è l'italiano. Un’esperienza spiazzante come camminare per Venezia, vaporosa come la nebbia».

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