La scacchiera politica di Enrico che Giotto tradusse in arte

Dal Vangelo secondo Luca: «Un angelo entra nella casa di Maria e le annuncia che concepirà il figlio di Dio». Il 25 marzo, equinozio di primavera, è la festa dell’Annunciazione, la cappella di Giotto a Padova è dedicata a Santa Maria Annunciata e a quella data sarà celebrata una messa e ci sarà una pubblica funzione devozionale; è anche in programma un convegno al Centro Culturale Altinate. Monsignor Claudio Bellinati, storico dell’arte della Curia a Padova, sta per pubblicare uno studio in cui dimostra che Enrico degli Scrovegni figlio di quel Rinaldo che Dante condanna alle fiamme eterne nel girone degli usurai, uomo di sterminata ricchezza conquistata con la frode, costruendo la Cappella per espiazione e consegnandola alla devozione popolare, compie un atto di redenzione non tanto ispirato da improvvisa illuminazione, ma frutto di calcolo. Mette, infatti, sulla scacchiera i pezzi di una strategia complessiva che si concretizza in alleanze con gli uomini, le istituzioni, gli ordini, impegnati nella lotta contro l’usura.
Agli Scrovegni un dipinto raffigura San Bernardo di Chiaravalle. San Bernardo fu combattente indomito contro l’eresia e lo strozzinaggio, ed ebbe rapporti imponenti con l’Ordine dei Templari, i monaci guerrieri votati alla difesa dei pellegrini in Terrasanta. In effetti la fondazione dell’ordine e le sue regole, approvate da papa Onorio II, ebbero in San Bernardo il principale ispiratore. Era, questi, figura di fede profonda e di grande cultura, teologo, dottore della Chiesa, Dante gli assegna un posto nell’Empireo, è la terza guida, dopo Virgilio e Beatrice, nel viaggio ultraterreno del poeta. La presenza del santo francese nello scrigno della pittura trecentesca degli Scrovegni mette in rilievo anche il legame con l’Ordine dei Templari. I Cavalieri del Tempio avevano in città una loro chiesa nei pressi di Santa Sofia, ma si riunivano anche nella cripta, affrescata con stelle a otto punte, della Cappella, con i loro mantelli bianchi, le spade e la grande croce rossa.
Questa familiarità dei Templari con Padova durò fino al 1307 quando Filippo IV il Bello, re di Francia, dopo aver messo in moto una ben oliata macchina del fango imbrattando i monaci guerrieri con le accuse di eresia, sodomia e idolatria, organizza l’arresto di 546 cavalieri. Il Gran Maestro e tutta la dirigenza finisce sul rogo. È il 13 ottobre, un venerdì, e da questa sciagura deriva la convinzione superstiziosa che il venerdì 13 porti iella. Le motivazioni del re di Francia sono prevalentemente economiche: impossessarsi della sterminata ricchezza dell’Ordine.
Da notare che l’architettura della piccola chiesa nell’arena romana imita il cuore del tempio di Gerusalemme. Viene in mente la teoria dei frattali, quell’autosomiglianza per cui il promontorio di fango in una pozzanghera fluviale è la copia miniaturizzata del profilo di montagne che si staglia all’orizzonte. Il cerchio si chiude con i contatti di Enrico con i Domenicani, l’ordine mendicante che combatteva l’usura e che aveva sostituito i francescani al vertice dell’inquisizione.
I Domini Canes, di ferrea fedeltà, avevano come simbolo un cane con una torcia accesa in bocca. Enrico, a Roma, viene introdotto negli ambienti vaticani e in quelli dell’Ordine e prende anche contatto con Giotto per intercessione di un prelato, padovano d’origine, Altogardo dei Cattanei. Altogardo lo ritroviamo negli affreschi, in ginocchio, ammantato di bianco, regge il modellino della Cappella offerta da Enrico a una santissima terna: al centro la Madonna della Carità, a destra Santa Caterina di Alessandria, a sinistra San Giovanni evangelista. Gli abiti, in stile trecentesco veneziano sono splendidi. Jacopo di Varagine (Varazze), arcivescovo di Genova, domenicano, è l’autore della “Legenda aurea” in cui raccoglie vita e miracoli di 150 santi. Parla anche dell’Annunciazione che Giotto dipingerà con abilità e passione.
La Cappella nasce come oratorio della grande villa dei Gradenigo-Foscari a cui è accostata. È di sicura staticità perché appoggia sulle rovine dell’anfiteatro romano che poi degrada in un terreno sabbioso che assorbiva il sangue dei gladiatori massacrati nell’arena. Palazzo Gradenigo viene abbattuto nell’800 e crolla anche l’elegante loggia che incorniciava la porta principale. L’800 e i primi anni del Novecento sono per Giotto il periodo dell’oblio. Stendhal nel suo viaggio in Italia e nel suo soggiorno a Padova non nomina gli Scrovegni una sola volta, preferisce il Pedrocchi.
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