La Storia / La grande fuga dal castello: «Così liberai 11 partigiani»

Maria Clotilde Mosconi, nella Resistenza per amore del fratello Mario. Con coraggio nel 1945 organizzò l’evasione di quel gruppo di detenuti politici

PADOVA. «A te, Mariuccia, due volte sorella, dedico per sempre una particolare parte della mia vita che tanto hai contribuito a salvare». Maria Clotilde e Mario Mosconi non sono semplicemente fratelli. Le loro vite si sono intrecciate ancora di più quando Mariuccia ha varcato la soglia del carcere di piazza Castello indossando un paio di calze a losanghe.

Mario, partigiano, era detenuto. Tra la lana dei calzetti e la pelle di Mariuccia c'erano dei seghetti per tagliare le sbarre della prigione. Il 23 aprile 1945 Mario “Egisto” Mosconi e altri dieci detenuti evasero dalle prigioni entrando nella storia di Padova.

La testimonianza di Mariuccia, che oggi ha 92 anni, non era mai arrivata al grande pubblico. Il suo racconto, insieme a quello di molti altri protagonisti della storia del Castello Carrarese, trova spazio nel documentario “Il castello imprigionato”, che si sta girando in queste settimane proprio in quegli ambienti.

Non deve essere stato facile per una donna avere libertà di azione in quel periodo. Eppure la sua storia dimostra il loro ruolo nella Resistenza. Qual è il suo punto di vista?
«A quel tempo la donna era una spettatrice degli eventi. Per me fu incredibile dover entrare nel periodo più acceso della cospirazione. Ma lo feci per amore di mio fratello. Avevo deciso che dovevo liberarlo, ma non sapevo neppure perché fosse partigiano. Di queste azioni non avevo parlato neppure con la mia famiglia, che credeva Mario al sicuro. Però non mi sono mai sentita sola, anche se all'inizio non avevo contatti con nessuno. Contavo sul sentimento per mio fratello. Era il motore della mia azione».

L'evasione dal castello entrò nella storia di Padova e Lei ne fa parte. Quale fu il suo contributo?
«Mio fratello Mario era stato imprigionato dai tedeschi che, dopo averlo detenuto in diversi posti, lo portarono nella Casa di pena di piazza Castello, l'ultimo approdo per la deportazione o per la pena di morte. Un giorno mi avvicinò in piazza Duomo una persona di cui non conobbi mai l'identità e mi consegnò un bigliettino che conteneva una foto e una missiva. “Cara piccola, qui con me alla Casa di pena c'è il nostro caro cugino Novenio Righetto. Desidera rivederti, indossa sempre la maglia gialla confezionata da te e ti ricorda con tanto affetto”. Io non conoscevo quell'uomo, la lettera era un messaggio in codice.

Con quella lettera suo fratello Mario la invitava ad andare a trovare Novenio Righetto, con il quale stava organizzando l'evasione e che non essendo un detenuto politico aveva la possibilità di avere dei colloqui. Cosa fece?
«Andai al Comitato di Liberazione Nazionale, con il quale avevo preso contatti durante le prime prigionie di Mario, e architettammo questa “avventura”. Mi presentai in piazza Castello dicendo di essere la cugina di Novenio. Il “pizzardone” mi chiese i documenti e risposi che non li avevo, essendo venuta in bici da Vicenza. Avevo con me dei pacchetti di sigarette. Voltando le spalle alle persone che attendevano di entrare, estrassi dalla mia borsa il pacchetto e sorridendo ingenuamente glielo porsi.

“Si metta in coda” mi disse. Mi sedetti nella stanza dei colloqui e riconobbi Novenio grazie al maglione giallo che indossava e alla foto che mi aveva inviato Mario. “Ciao Mariuccia” mi dice sottovoce per non dare nell'occhio e si sedette accanto a me.

“Come stalo me papà? E la mama? Poareta la vedito qualche volta?”. Però appena passò il vigilante: “Signorina, noi abbiamo ben organizzato una fuga. Ci occorrono però due cose: la pianta della prigione e dei seghetti che però devono essere adatti a tagliare le grosse sbarre della finestra della soffitta”.

Ogni volta che la guardia carceraria passava davanti a noi il nostro colloquio simulava un tono affettuoso e si parlava di famiglia. Mi avviai all'uscita con il cuore in tumulto».

Suo fratello ha lasciato un diario in cui raccontava la sua storia, dal titolo “Mai più come allora”. Come ha descritto l’evasione?
«In quel diario sono descritti molti momenti particolari della sua vita di partigiano. Questo, forse è significativo perché racconta l’evasione. “Decidemmo la fuga per la sera del 23 aprile poiché sebbene sperassimo molto nel rannuvolarsi del cielo, rimaneva ostinatamente sereno... Verso le 17 avvenne il solito controllo alle sbarre della cella ed il conteggio dei prigionieri. Alle 21,25 chiamai interno a me gli altri dodici amici e dissi lentamente: tra un minuto si fugge, chi viene con noi?... Alle 21,30 Elio Girardello dal corridoio esterno iniziava il suo lavoro mentre tutti noi si era in attesa. Dopo tre minuti di manovra la porta cedette. E fu la libertà”».

Ne parlò con il presidente del Comitato e futuro prefetto di Padova Gavino Sabadin, che le procurò una falsa carta di identità. La seconda visita fu più semplice della prima?
«Avvenne senza traumi. Dovetti solo giocare di abilità per estrarre dai calzettoni seghetti e pianta dell'edificio e consegnarli al Righetto, eludendo la sorveglianza del carceriere e l'attenzione delle altre persone che erano a colloquio, ma solo perché eravamo due bei ragazzi e tutti pensavano a ben altro per il nostro incontro. Prima tirai fuori i seghetti dalle calze e li misi sotto la gonna, poi li passai a Righetto che li nascose sotto la giacca».

«L'evasione avvenne il 23 aprile: i detenuti avevano trovato una scala in soffitta e, dopo aver tagliato le sbarre di una finestra, la appoggiarono all'orlo dell'edificio di fronte. Il primo a passare fu Novenio Righetto, per vedere se reggeva, poi suonò l'allarme ma riuscirono a fuggire tutti. Io riabbracciai mio fratello Mario il 24. Fu un momento di grande commozione, poi “Egisto” passò ad organizzare la difesa di Padova».

Il suo ruolo in questa vicenda fu fondamentale. Fu coraggiosa, ma anche brava a mentire. Si aspettava di dover tirare fuori questo lato del suo carattere?
«Prima della guerra avevo avuto delle esperienze come attrice, ma mio padre non voleva che continuassi. Durante la Resistenza finsi in molte occasioni. Quando parlavo con i tedeschi dicevo di non sapere la lingua e facevo la faccia da ingenua, ma in realtà capivo tutto».

«Mi atteggiai anche a prostituta per vedere mio fratello uscito a spazzare la neve sotto il controllo di un soldato tedesco. Ma dissero delle menzogne anche a me: avevo un finto corteggiatore che aveva il compito di vigilarmi e mi avvicinò dicendo che eravamo stati in classe insieme a scuola. Io non frequentai mai classi miste, ma feci finta di nulla».

A distanza di 67 anni, cosa rimane di quel periodo?
«La scorsa estate sono tornata al Castello Carrarese per la prima volta dopo tanto tempo. Lì per lì non ho riconosciuto il posto perché all'epoca ero così presa dal pensiero di Mario che non avevo notato l'ambiente. Però quando sono entrata nella stanza del ricevimento mi sono emozionata moltissimo e ho rivissuto le sensazioni di quando sono diventata “partigiana per amore” per salvare la vita a mio fratello».

«È questo che ho insegnato ai miei nipoti: ovunque ci si trovi bisogna farsi portare dal coraggio. Oggi grazie alla televisione e giornali il mondo è un libro aperto, ma il coraggio è un sentimento meno presente. Chi mette a repentaglio la propria vita per un'idea? Nessuno, forse. Però io lo rifarei anche adesso, anche a novant’anni».

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