Lanaro lascia la docenza: studioso scomodo del nostro tempo

Silvio Lanaro, festeggia i 70 anni e lascia la docenza di storia contemporanea al Bo: un patrimonio di analisi e grandi intuizioni
CARRAI - PREMIO FUMAGALLI A TULLIA ZEVI - DA SX SILVIO LANARO CARRAI - PREMIO FUMAGALLI A TULLIA ZEVI
CARRAI - PREMIO FUMAGALLI A TULLIA ZEVI - DA SX SILVIO LANARO CARRAI - PREMIO FUMAGALLI A TULLIA ZEVI

PADOVA. Silvio Lanaro è uno dei grandi storici contemporanei italiani, anche se per sua scelta ha sempre preferito parlare solo attraverso i libri. Per questo a festeggiare i suoi settant’anni e la fine delle sue lezioni universitarie sono arrivati, col Rettore, molti docenti dell’Università di Padova, che hanno affollato l’Aula Nievo del Bo, ma anche studiosi esterni. E uno dei maggiori editori specializzati in Storia contemporanea, Donzelli, ha pensato a un tributo in forma di libro, intitolato “Pensare la nazione”. Un libro vero, come ha sottolineato Mario Isnenghi che lo ha curato insieme a Carlotta Sorba, perché di scritti d’occasione uno come Lanaro non se ne sarebbe fatto niente. Non a caso è sempre stato uomo di polemiche, o meglio le sue idee storiche hanno sempre prodotto polemiche.

«Quando ho scritto Nazione e lavoro» racconta Lanaro «Norberto Bobbio ha scritto che era un bellissimo libro, ma che quello che avevo scritto era tutto sbagliato. E gli storiografi liberali hanno reagito con sdegno, perché avevo toccato la loro tradizione. Così in pratica il libro è stato censurato».

Era un libro che sovvertiva la lezione ufficiale, che voleva il fascismo come parentesi malata di una liberalismo in fondo sano. Per Lanaro, invece, la parentesi erano i quindici anni di liberalismo giolittiano, perché nella nazione il germe autoritario era già nelle origini. «Non vedevo il fascismo come confliggente con la tradizione precedente» dice Lanaro «ma come esito di una stortura del liberalismo italiano, come conclusione di un processo di modernizzazione del lavoro industriale che sin dalle origini aveva preso una direzione diversa dalla tradizione europea».

Di qui il titolo, “Nazione e lavoro”, che suonava molto controtendenza proprio per quel valore fondante della “nazione”, che all’epoca la sinistra, cui Lanaro apparteneva, guardava con sospetto. E del resto la sua tendenza a non liquidare il fascismo come semplice dittatura, affrontandone la complessità, suonava un po’ eretica.

Ma anche il secondo grande libro di Lanaro, la “Storia dell’Italia repubblicana” pubblicata nel 1992 sollevò notevoli polemiche per la capacità di Lanaro di leggere la società non solo attraverso gli atti politici, ma anche attraverso i pensieri, la cultura, gli apparati ideologici. E anche in quel libro, come ha sottolinea lo storico napoletano Paolo Macry, tornava l’idea dell’Italia come “legno storto”, quel misto di bene e male, come diceva Kant parlando dell’umanità, che non si riesce a raddrizzare.

Forse in una qualche fase Lanaro la speranza di raddrizzare l’Italia l’ha avuta, gli ha ricordato il politologo Gian Enrico Rusconi. L’ha avuta quando con lungimiranza coglieva nell’Italia degli anni Ottanta i germi dell’ Italia malata di oggi, ma li leggeva con un qualche ottimismo, come se contenesse degli anticorpi, che invece non sono mai stati attivati.

Lanaro è uno che non si tira indietro neppure se festeggia i settant’anni. «È vero, alcune cose non sono andate come pensavo potessero andare» dice «ma è un rischio che lo storico contemporaneo deve correre. Donzelli è rimasto colpito dalla mia previsione, nel 1993, che la Lega sarebbe stato un epifenomeno destinato a non durare a lungo. Credo di aver avuto ragione. Così come nel giudizio sul ’68, che a qualcuno era parso ingeneroso. Quando si fa storia contemporanea si lavora su curve spezzate, ma bisogna anche azzardare, perché non ci può tirare indietro». Nessun pentimento anche se le cose sono andate peggio di come aveva immaginato. «L’Italia è sprofondata»dice «è finita nel peggiore dei modi, senza più un’etica pubblica. D’Alema diceva che aveva preso in prestito da me l’idea dell’ Italia come paese normale: non è un paese normale, invece. Oggi non abbiamo più industria, la crisi l’ha azzerata, la stessa struttura sociale è radicalmente cambiata». Insomma non è andata come doveva andare, ma, come dice Macry, su un altro piano Lanaro ha avuto di gran lunga ragione: «In tempi di ortodossia liberale, in cui si diceva che capitalismo e democrazia andavano a braccetto, Lanaro ha colto invece il nesso forte tra autoritarismo e modernizzazione capitalistica. La Storia, come mostra la Cina, gli ha dato ragione».

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