Le due vite di Felice Maniero
«Bruciato» in libreria «La resa», storia del boss del Brenta

Da quando il libro ha visto la luce, mi pare che solamente in una o in due occasioni non mi sia stato chiesto: «Perché hai scelto Maniero? Perché hai deciso di occuparti di lui?». Questa domanda, infatti, è un po' il leit motiv che accompagna La resa, il mio ultimo libro dedicato all'ascesa, al declino e al cosiddetto "pentimento" di Felice Maniero. Incuriosisce molto il fatto che, a così tanti di distanza dalla sua decisione di collaborare con la giustizia - era il 1994 - il bandito sia ancora oggi oggetto-feticcio di pubblicazioni, di trasmissioni televisive di grido curate da celebri giallisti, di mini fiction. Ogni volta, allora, che mi viene posta questa domanda, rispondo spiegando che la richiesta di realizzare questo libro non è stata mia bensì dell'editore, Alessandro Dalai, affascinato da sempre dalle storie dei banditi moderni, dalle loro vite criminali, dal loro "fascino maledetto" che alla strage dei nemici accompagnava quella dei cuori di molte fanciulle. Così è stato, ad esempio, per il Bel René, così è stato per Faccia d'angelo. Era settembre quando il presidente della Baldini Castoldi Dalai mi ha chiamata per commissionarmi un libro, un instant book su "Felicetto", personaggio evidentemente capace di esercitare una attrattiva anche per chi veneto non è. In quei giorni di fine estate il regime della sorveglianza speciale per il mafioso veneto era terminato da pochissimo e, dopo anni di oblìo, il suo nome era tornato a far capolino dappertutto, ogni volta seguito da un solo eloquente aggettivo: «libero». Ho pensato che sì, era giusto fare qualcosa che contribuisse a riportare la storia del boss del Brenta e della sua organizzazione dentro binari più reali, scrostandoli dalla vernice del mito. Era giusto, ho riflettuto, che come autrice e come giornalista mettessi nero su bianco tutti i dubbi, le incongruenze, le mezze verità e le insospettabili manovre che in questi anni hanno accompagnato la sua stella. Ed è così che è nato La resa. Alla domanda «Perché Maniero?» potrei ora rispondere anche: perché ho creduto che, sedici anni dopo la sua cattura, fosse arrivato il momento di abbattere un idolo, quel totem che ancora giganteggia idealmente su questi territori (sebbene non ci faccia piacere riconoscerlo) affascinando persone di ogni età ed estrazione sociale. Perché, ancora, ho ritenuto fosse giunta l'ora di far sapere ai veneti, ma non solo, che questo signore, questo capomafia furbo, ambizioso e intelligente, probabilmente non sarebbe diventato così potente senza il provvidenziale soccorso dello Stato, senza i suoi favori, senza continui accordi e trattative. Ad un certo punto, si legge in La resa, la cattura di Maniero spacca prepotentemente il fronte investigativo e insinua dubbi e sospetti (mai sopiti) su magistratura e forze dell'ordine. La Dia di Padova esce dalla storia con le ossa rotte mentre Giancarlo Ortes, un pregiudicato minore, uno di quelli che aveva aiutato il boss ad evadere dal Due Palazzi, esce addirittura cadavere. Ammazzato, una notte d'autunno, per mano della Mala ma sotto gli occhi dello Stato. L'attualità della storia della mafia veneta e del suo capo non sta solo nella recentissima sentenza del processo d'appello - che ha ridimensionato le condanne emesse in primo grado - ma nel processo stesso, istruito a vent'anni di distanza dai fatti, quando molti reati sono finiti in prescrizione. Sembra incredibile ma è così. E mentre molti dei suoi ex sodali sono tornati sul banco degli imputati, Faccia d'angelo è diventato imprenditore nonché papà per la quarta volta (la madre dell'ultima figlia è l'ex cognata Marta Bisello). E può spesso aggirarsi, al volante della sua Porsche azzurra, nelle terre in cui un tempo era abituato a spadroneggiare.
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