L'indipendenza veneta non morì col Plebiscito E chi lo afferma, bara

La prima visita solenne di re Vittorio Emanuele II a Venezia dopo il Plebiscito unitario: è il 7 novembre 1866
La prima visita solenne di re Vittorio Emanuele II a Venezia dopo il Plebiscito unitario: è il 7 novembre 1866
I l Plebiscito del 21 e 22 ottobre 1866, che sancì l'adesione del Veneto al Regno d'Italia, fu un inganno perpetrato dalla monarchia sabauda. Il suo esito fu manipolato dai brogli e la stragrande maggioranza del popolo non si recò alle urne. E' l'argomento principe di chi rivendica l'indipendenza veneta in nome dell'autodeterminazione violata e di quanti disconoscono il valore morale e civile dell'Unità nazionale, scorgendovi nulla più dell'epilogo di una guerra espansionista. Nell'approssimarsi del 17 marzo questa vulgata (a lungo limitata a sodalizi eccentrici e sparute enclave separatiste) riacquista vigore.  Meglio, trae linfa dal discredito del ceto politico che si appresta a celebrare, tra fanfare e pennacchi, una Patria alla quale non ha reso grande onore. E si giova della disinformazione diffusa, dell'ignoranza vera e propria, sì, che avvolge i capitoli cruciali della nostra storia. Ciò consente il permanere di equivoci grossolani, tra tutti quello riguardante l'atto plebiscitario.  Dove l'aut aut non includeva il ritorno alle immaginarie "libertà" della Repubblica dei Dogi - deceduta per consunzione ancor prima dell'aggressione napoleonica - opposto all'annessione alla rapace corona di Torino. Semmai il permanere (del tutto ipotetico, certo) del Veneto nell'alveo dell'Impero d'Austria e Ungheria in condizione di suddito. Non proprio una prospettiva gloriosa per chi sventola il gonfalone dell'autonomia.  Ma il Plebiscito, soprattutto, non sancì l'unione veneta al Regno di Vittorio Emanuele II, già acquisita sul piano diplomatico-militare con la Pace di Vienna del 3 ottobre. Si limitò a ratificarla per acclamazione propagandistica. Una conquista di guerra, sì: forse che il principe Metternich, nel 1815, aveva consultato il "popolo di San Marco" in procinto di diventare parte del dominio asburgico?  E in tema di veridicità storica, quanto vi è di reale e quando di artefatto nel mito della Vienna Felix e del governo illuminato dell'Aquila bicipite, capace di assicurare saggiamente il progresso alle province imperiali? Non troppo, sembrerebbe, se nel Lombardo-Veneto, come nella fatidica Mitteleuropa, l'opposizione - destinata a diventare insurrezione - trovò terreno fertile soprattutto nella borghesia manifatturiera, commerciale e intellettuale, ovvero nel ceto trainante dello sviluppo. Ancora: nel 1866 a pronunciarsi in favore dell'Italia fu una minoranza. E' vero. A fronte di una popolazione censita di 2.603.009 persone, i votanti furono 641.758 e di questi 69 scelsero il no.  Fu un pronunciamento democratico? Sarebbe arduo sostenerlo ma chi solleva questa obiezione sovrappone al passato le lenti deformanti del presente: nel Veneto della seconda metà dell'Ottocento, analfabetismo, arretratezza sociale e subalternità ai poteri istituzionali - laici e religiosi - impedivano tout court il sorgere di una coscienza civile e politica diffusa; quanto alle libertà civiche, nella rimpianta Repubblica Serenissima (non lo dimentichino, i suoi nostalgici) l'accesso alla vita pubblica rimase sempre appannaggio esclusivo di una ristretta cerchia di patriziato.  Il Risorgimento italiano, dalla sua genesi all'epilogo provvisorio del 1861, si presta a molteplici riflessioni critiche in ambito storiografico. Dove il prevalere del moderatismo cavouriano sulle correnti democratico-garibaldine deluse l'ansia di rinnovamento per tradursi in una sostanziale continuità di classi dominanti e - soprattutto nel sud gattopardesco - in un'alternanza predatoria di corruzione e repressione.  Né va sottaciuta la miopia di una dinastia, quella savoiarda, incapace di concepire una politica riformatrice e refrattaria ad ogni forma di allargamento sociale del consenso. Ma questa è un'altra storia e ci auguriamo ne riaffiori qualche brandello, almeno, dai fiumi di retorica all'orizzonte. Con rigore, senza indulgenze. La replica più efficace a chi confonde propaganda e memoria.

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