Luca Tacchetto ripercorre la lunga prigionia «Venere nel cielo, io ed Edith soli in fuga»

L’anteprima del racconto in due puntate che andrà in edicola questa mattina sul settimanale «Oggi» 
Italian Luca Tacchetto (L) and Canadian Edith Blais (R) are greeted by officials as they arrive at the airport in Bamako on March 14, 2020, after their release by UN peacekeepers. - A Canadian woman and her Italian partner kidnapped in Burkina Faso in 2018 have been found alive in the northwest of Mali by UN peacekeepers, diplomatic and UN sources said on March 14. "UN blue helmets found an Italian citizen and a Canadian citizen near Kidal, who had been taken hostage in Burkina territory in 2018," a security official from the UN mission in Mali, MINUSMA, told AFP. (Photo by MICHELE CATTANI / AFP)
Italian Luca Tacchetto (L) and Canadian Edith Blais (R) are greeted by officials as they arrive at the airport in Bamako on March 14, 2020, after their release by UN peacekeepers. - A Canadian woman and her Italian partner kidnapped in Burkina Faso in 2018 have been found alive in the northwest of Mali by UN peacekeepers, diplomatic and UN sources said on March 14. "UN blue helmets found an Italian citizen and a Canadian citizen near Kidal, who had been taken hostage in Burkina territory in 2018," a security official from the UN mission in Mali, MINUSMA, told AFP. (Photo by MICHELE CATTANI / AFP)

Il memoriale

Dopo la lunga intervista concessa a Il Mattino di Padova la scorsa settimana sulla sua fuga dal Mali assieme alla fidanzata Edith Blais al termine di 15 mesi di rapimento, Luca Tacchetto ha scritto il suo memoriale su questa lunga disavventura e consegnato al settimanale “Oggi” che lo pubblica in esclusiva. La prima delle due puntate del memoriale di Tacchetto raccolto dall’inviato Giuseppe Fumagalli è da oggi in edicola. Ne pubblichiamo alcuni stralci, ringraziando l’autore e il settimanale Oggi.

affidarsi a venere

«È stata un’esperienza forte e violenta. Ma non è stata una tragedia. Certo, avrebbe potuto esserlo. Non lo è stato perché forse sono diventato anch’io un uomo del deserto. Un puntino invisibile nella distesa di sabbia, capace di leggere il proprio destino scritto nella volta del cielo. Là, nell’esplosione di stelle e pianeti mi sono affidato a Venere. L’avevo studiata ai tempi del liceo, ho riconosciuto il suo bagliore nel quadrante occidentale del cielo e lei non m’ha tradito. La sera del 12 marzo, come ogni sera, gli uomini di guardia hanno recitato la preghiera del tramonto e si sono addormentati. Non c’era luna. Ho aspettato che scendesse il buio fitto, mi sono avvolto degli stracci sui piedi, ho aspettato che il vento s’alzasse a coprire il fruscio dei passi, ho preso una tanica d’acqua che avevo nascosto giorni prima, mi sono chinato su Edith, mia compagna di tutto, e quando ho sentito la sua mano stringersi alla mia, siamo partiti. Immagino l’obiezione. Ma come non eravate legati? ».

senza catene nel deserto

«No, in mezzo al deserto ti lasciano libero d’andare dove vuoi, sapendo che andrai dove puoi. Ovvero, da nessuna parte. A settembre, quando ero solo, perché i sequestratori un anno prima ci avevano diviso, avevano mandato me da una parte ed Edith dall’altra, avevo tentato di fuggire e dopo un giorno già m’avevano ripreso. Da quel giorno mi hanno tenuto in catene giorno e notte. Sono andato avanti così per mesi, poi per buona condotta, mi hanno incatenato solo di notte. Ero rassegnato. Ma a gennaio Edith è tornata. Mi scoppiava il cuore di gioia. Eravamo stremati. Ma in quel vuoto assoluto, il solo fatto di vederci vivi e di essere nuovamente insieme ha liberato energie che non sapevamo più di avere. Con l’arrivo di Edith, mi hanno tolto le catene anche di notte. Avevo l’unico obbligo di consegnare acqua e sandali prima di dormire. Ma chi dormiva?».

la fuga

«Da quel momento abbiamo pensato solo a scappare. Ascoltavo gli uomini di guardia, cercavo di capire il senso delle conversazioni in arabo e mi ero fatto un’idea della posizione. Dovevamo essere all’estremità nord orientale del Mali, al confine con l’Algeria. Come unico approdo in un mare di sabbia e pietre, doveva esserci Kidal, avamposto francese e dell’Onu, da qualche parte a Ovest. Venere ci ha mostrato l’Ovest. Vai, ma una volta fuori, non sai più dove sei. Hai solo quel punto nel cielo che ti dice dove andare. Sono mesi che non mangi, non bevi, non fai sport e sei un’ameba. Ma quando decidi di partire non ti fermi più. È stata dura. Edith non vede bene, da mesi non aveva più gli occhiali e avanzava aggrappata a me, inciampando, cadendo, rialzandosi e riprendendo ogni volta la marcia. Il bidone d’acqua che avevo sulle spalle s’è rotto. Non avevamo niente da bere, ero fradicio, c’era vento, avevo freddo e camminavo a piedi nudi».

la pista

«Finché all’alba abbiamo visto a distanza due solchi paralleli tracciati nella terra. Era una pista. Eravamo sfiniti e ci siamo fermati ad aspettare. Poteva essere un rischio enorme. Sarebbero potuti passare i nostri sequestratori. O magari nessuno. E noi saremmo rimasti lì, a morire di sete. Non avevamo scelta, ci siamo nascosti dietro un cespuglio e siamo rimasti in attesa. Sono state ore interminabili. Finché non abbiamo sentito in lontananza un rumore sordo di pistoni e lamiere e, avvolto in una nuvola di fumo e polvere, abbiamo visto arrivare un camion. Più si avvicinava più si presentava come uno di quei catorci arrugginiti che si vedono circolare solo in Africa. Sarà stato brutto, sporco, scassato, ma ispirava fiducia. Edith mi fissava come aspettasse un mio segnale. Mi sono alzato, abbiamo corso per 200 metri, ci siamo buttati in mezzo al percorso e lo abbiamo fermato». ––

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