Luce, colori e prospettive come un obbiettivo È il nuovo Impressionismo

L’eredità della pittura veneziana incontra la “macchia” toscana Poi Parigi farà di “Zandò” il cantore della città e delle sue donne
Di Virginia Baradel

di Virginia Baradel

Domandarsi quale sia il posto di Federico Zandomeneghi nella storia dell’arte nel tardo Ottocento significa partire da una biografia ricca di premesse e da un talento speciale nel cogliere la rivoluzione in atto in quegli anni nella pittura. Le premesse sono interamente veneziane, riguardano la famiglia e la pittura. Nonno, padre e zio erano affermati scultori, abilissimi nel forgiare statuaria canoviana come nel monumento funebre di Tiziano ai Frari, collocato di fronte a quello di Canova nel quale pure ebbero parte. La pittura che Federico ha nel sangue è quella veneziana del primato del colore, della tavolozza come seduzione sinestetica di occhio e di tatto. Con questo bagaglio pressoché genetico, approda in Toscana per sfuggire alla leva austriaca, e qui incontra i Macchiaioli legandosi di fraterna amicizia e di comuni vedute al mistagogo della nuova pittura, Diego Martelli. Supera, ma non archivia, gli insegnamenti accademici ricevuti a Venezia e a Milano e il romanticismo storico imperante a Venezia all’insegna di Hayez. La prima stagione della sua vita, dopo una specchiata militanza patriottica, scorre serena tra Venezia e Firenze, affamata di cimento e coronata da brillanti prove. L’eredità della pittura veneziana assorbe con disinvoltura un en plein air che non è quello di Ciardi ma piuttosto elabora, tramite la “macchia”, le sprezzature di campo, i contrasti repentini tra luce e ombra che danno corpo allo spazio.

È il tempo di un nobile realismo che guarda agli umili e non disdegna un naturalismo sentimentale che accampa la statura di una contadina come se si trattasse di Pia de’ Tolomei. Zandomenghi comprende i toscani e ci mette del suo. Da quella piattaforma, che cerca il nuovo senza allontanarsi mai del tutto dal forbito Ottocento, prende il volo per Parigi, approda nella patria degli impressionisti, pionieri della vera pittura moderna. Ma Parigi non è Castiglioncello e gli impressionisti stanno affilando armi e posizioni. Arriva proprio nel fatidico 1874, l’anno della prima mostra di Monet e compagni nello studio del fotografo Nadar. Non riesce a inserirsi subito, pur frequentando luoghi deputati e pittori in prima linea. All’inizio si rassegna a fare l’illustratore di moda e lo farà per quindici anni, anche dopo aver superato le diffidenze ed essersi imposto come pittore. Intanto diventa il punto di riferimento per gli amici che giungono a Parigi. La situazione si sblocca a fine decennio quando Degas lo inserisce nella collettive del gruppo.

Martelli, che soggiornò a lungo da lui a Parigi, ne loda il coraggio per aver aderito senza esitazioni all’Impressionismo in tempi ancora precoci. Zandomeneghi dipinge come sa: il suo impressionismo include sottotraccia la memoria delle cromie veneziane e della solidità toscana e intanto studia i diversi orientamenti degli amici francesi che ora comprendono anche Renoir e Toulouse-Lautrec. Trova congeniale l’istantanea scattata sulla strada, al parco, al caffè, motivo che condivide con gli altri due italiens de Paris, De Nittis e Boldini. De Nittis punta sulla seduzione svagata, sul mood parigino; Boldini sullo sfavillio del jet set catturato nelle piroette dell’agile pennello. Zandomeneghi non dipinge all’incanto, inquadra la scena, monta il taglio prospettico tramite i colori, la loro luce e la loro stesura: tira dritto al nero se la partitura è all’ombra, picchietta varietà di toni se è al sole. “Place d’Anvers” è uno scorcio urbano dove le quinte prospettiche sono trame di pennellate corte e le figure sagome di colore. Il verbo impressionista è acquisito e rilanciato.

L’appartenenza al gruppo si consolida negli anni Ottanta. È amico di Pissarro che allunga prodigiosamente il punto di vista senza tradire l’impressione visiva; di Mary Cassat che predilige le scene d’intimità domestica femminile; di Renoir da cui prende il crepitio delle ombre colorate; di Gauguin che possiede un suo dipinto, mentre Zandomeneghi acquisterà “La belle Angèle” quando questi metterà all’asta i suoi quadri per procurarsi i soldi per Tahiti. I tre dipinti girati al caffè, “Coppia al caffè”, “Al caffè” e “Al Caffè Nouvelle Athènes” dimostrano il “suo” impressionismo d’impronta narrativa, che volge ai contrasti, movimenta spazi e figure e genera suggestioni ben al di là del tocco sgranato, con Suzanne Valadon, modella, pittrice e madre di Utrillo, incipriata alla Pierrot che diventa inconfondibile icona del suo stile. Ora i galleristi lo cercano, anche Goupil che all’inizio lo aveva snobbato; Clauzet diventa il suo mercante nei primi anni Ottanta, per poi passare il testimone al celebre Durand-Rouel.

A Parigi è tutto nuovo: i lampioni, le fontanelle in ghisa, le colonne-vetrina per le chiassose affiches. Edmond Duranty detta le massime di una nuova flagranza pittorica: le scene urbane avrebbero dovuto godere di un punto di vista inedito in grado di suscitare sorpresa, casualità, emozione. Zandomeneghi imposta l’en plein air urbano con tagli originali: riprende il Moulin de la Galette da un’angolatura secondaria, del tutto insolita e punta su spazi poco noti di Montmartre e della periferia parigina.

De Nittis muore nel 1884 e il veneziano ne colma il vuoto senza tradire la propria individualità che si palesa egregiamente in dipinti come “Il tè”, un rito mondano di repertorio frequentato anche in Toscana. Il pittore adotta un punto di vista ravvicinato al punto da insinuare la sua presenza accanto alle giovani donne. La tecnica del pastello modella incarnati diafani e perlacei, abiti che sono fasci di tratti colorati, sguardi e gesti che tendono al fermo immagine. Negli anni Novanta il colore accentua un ruolo da protagonista e riaffiorano le origini veneziane. “Il giubbetto rosso” è una prova di maturità e di sintesi: il tratto impressionista sembra compattarsi, l’istantanea coglie la giovane nell’intimità del gesto di aggiustare il suo aspetto prima di uscire.

Idolo della scena parigina, della stessa modernità in corso, la donna è, anche per lui, il soggetto prediletto. Degas e Renoir ne hanno cantato l’intimità più segreta. La ballerina di Zandomeneghi è colta nel momento della “Visita in camerino”: a danzare sono le note chiare del tutù, della pelle e della tappezzeria, ma la giovane è seduta, calma e sorridente, nessun cenno di inquietudine. In “La toilette” il fruscio dei sottili tratti di pastello tramano un nudo che evoca Renoir, anche se si percepisce un’anima compositiva più strutturata.

Nei primi anni del Novecento anche i critici italiani portano il loro contributo al successo di Zandomeneghi, ormai inserito stabilmente nelle fila dell’Impressionismo. Vittorio Pica e Ugo Ojetti non nascondono la loro ammirazione. La consacrazione in patria avviene con la Biennale del 1914 dove Pica allestisce un personale con 41 opere. Vittorio Emanuele III acquista per la Galleria d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro “L’ultima occhiata”. Zandò, come lo chiamavano i francesi, muore tre anni dopo. Negli ultimi tempi si era concentrato su una ricerca che l’avvicinava a Guillamin, il più terso degli impressionisti e persino alle novità dei Nabis. Misura la capacità del colore di farsi dominante senza sacrificare la fisicità della campitura. “Bambina dai capelli rossi” è un azzardo per taglio e composizione, si compiace del contrasto tra la massa dei rossi, le note chiare dell’incarnato e quelle fredde della veste azzurra. Tuttavia la sontuosa orchestrazione dei colori non prevale sulla dolcezza del soggetto: ma non è Renoir, non può essere che Zandomeneghi.

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