L’umanità in prima linea al Pronto Soccorso

Un mezzogiorno di un giorno qualsiasi, con le porte del pronto soccorso che si aprono per far entrare un lui, sessantenne, piegato a metà dai dolori tra basso ventre e schiena, carnagione color topo acciaccato, un passo al minuto e pure tremolante. E una lei, coetanea, che lo accompagna, va da sé in grande ansia. Tutto talmente normale, niente che faccia notizia, se non l’incredibile, vorticosa, invincibile, faticosa e umanissima routine che palpita dietro quelle porte scorrevoli.
Talmente concentrata, tra le vite dei pazienti sospese in un momento di difficoltà o di dramma, quelle dei parenti e delle loro mille storie cariche di legami, relazioni, sogni e fatiche; quelle degli infermieri, dei medici, dei portantini, dei volontari dell’Avo, degli inservienti, tutti o quasi che se possono buttano lì la parola in più, il sorriso, la battuta, sapendo bene che la più banale delle frasi in quel posto di angoscia trattenuta e lacrime nascoste, fa l’effetto di un abbraccio.
Un’umanità talmente concentrata, insomma, che pare impossibile possa essere contenuta tra quattro normali mura senza farle esplodere.
Se l’area rossa è un’altra storia, ché lì le persone sono in bilico, l’area verde pare il mercato all’ora di punta, salvo che il via vai è pacato, sommesso, discreto e ordinato pur nella confusione di ambienti che dire sovraffollati è niente. Le infermiere e gli infermieri sono dappertutto, sembrano non farsi inghiottire né dall’enormità delle incombenze né dall’assuefazione a quelle stesse incombenze. Sempre uguali, sempre diverse. E che dio li benedica tutti.
Pare già un trionfo essere chiamati in area verde dopo un’oretta in sala d’attesa, fatto il triage. E uno ci casca a pensare che il più sia fatto. Invece il più comincia e, come anche i neonati sanno, le ore hanno appena cominciato ad ammonticchiarsi, sei, otto, dieci, dodici, ognuno a raccontare le proprie. E tutte, migliaia di ore per centinaia di pazienti, scivolano via sommesse. Cariche di stanchezza e attese ma libere di pretese. Che uno parte già arreso.
Quando si viene chiamati per la visita, è un’emozione: i medici capiranno, sapranno, diranno, prescriveranno, dimetteranno, ricovereranno. Insomma, risolveranno. Su di loro è inevitabile riversare una sconfinata, irrazionale fiducia, roba da commuovere uno sciamano.
E intanto, mentre il lui di prima giace in barella con la flebo di antidolorifico e la faccia sghemba sempre color topo, nella saletta soffocata da altre otto barelle con le rotelle che vanno dove vogliono, l’anziana signora accanto mormora qualcosa. Non ha un’anima a fianco, la figlia alla settima ora di attesa è andata a bere un tè, ma lei trova lo stesso un’orecchio vicino ed estraneo a raccogliere il suo qualcosa.
Ché se lì nessuno esibisce pacche sulle spalle o chiacchiericci inutili, corre tra tutti una solidarietà silenziosa che anche mezza parola basta a smuovere.
E l’anziana racconta che oggi, proprio oggi, è il suo compleanno e guarda come lo deve passare: ne compie 92, accidenti, e fino a pochi giorni fa, prima di cadere, stava benone. Non ha niente di rotto ma non riesce più a stare in piedi. Ha un bel viso, è molto lucida. Le scendono due lucciconi. Sa bene cosa vorrà dire non potersi più muovere.
Mentre un ragazzino magro magro, anima sola e in pena, cammina su e giù per il corridoio, su e giù, giù e su, un’anziana signora con la testa altrove e tra le mani un sacchetto, in caso di vomito repentino, non coglie il montante nervosismo della badante che la accompagna e che sarebbe dovuta andarsene due ore prima. Manca poco all’ultimo pullman e il nervosismo diventa sbuffo, umore nero. Ha bombardato di telefonate la figlia dell’anziana, ma quella non arriva.
Il personale, tirato all’osso, è in continuo movimento: lì come ovunque (e nel sociale più di tutto), i tagli alla sanità hanno suture che non tengono, che non possono tenere.
Più di qualcuno si scatta selfie, un signore addirittura si gira un video del braccio malconcio e rattoppato che come niente finirà su facebook tra gattini, tavole imbandite e strisce di Linus.
Un metro e novanta di ragazzo africano, completo nero e sopra un giubbotto da sportivo, è steso con un sacchetto di ghiaccio sul ginocchio: di sicuro un atleta, un gran pezzo di atleta sussurra una signora in vena di sorridere, nonostante la mestizia del circondario. E, accanto, due figlie si coccolano instancabili la madre sugli ottanta; hanno appena parlato con il medico: la situazione è molto compromessa ma la mamma non sa e non deve sapere. Cercano di farla ridere, si rimpallano le battute, una delle due racconta che la notte prima è andata a dormire nel letto della mamma per scaldarla. E la mamma racconta che, quando era piccola, quante storie le ha raccontato, quante, ma lei prendeva sonno subito. E non le ha mai imparate. Poi l’anziana tira fuori il fazzoletto, e piange. Lei lo sa quello che le figlie non le vogliono dire. Esplodono di umanità quelle mura.
Va via una volontaria dell’Avo, ne arrivano altri. Tutti si fanno in quattro. E arriva un ragazzo, gentile, premuroso: parla veneto. Come tanti, non fosse che si scopre che è marocchino. Lui scherzando butta lì: meglio parlare veneto, non si sa mai di questi tempi.
Il su e giù delle ambulanze è continuo: i volontari delle croci Rosse e Verde arrivano spingendo barelle, sono di tutte le età, hanno tutti quel gesto in più per chi sta sopra la barella, avvoltolato nella coperta, a volte spuntano solo i capelli. E molti sono giovani, fa bene vederli.
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