Menego a caccia dell’orso
Per chi era abituato alle tinte forti e talvolta caricaturali di “Savana Padana” o “Bacchiglione blues”, il nuovo romanzo di Matteo Righetto sarà una sorpresa. “La pelle dell’orso” (Guanda, p.160, 14 euro) è un racconto lungo che aspira ad una dimensione più letteraria e più classica. C’è qualcosa di Hemingway in questa storia, quello di “Il vecchio e il mare”, per la voglia di narrare una sfida tra uomo e animale, che non può avere vincitori. Ed anche per il rapporto tra il vecchio ed il giovane, che in questo caso sono padre e figlio. Molto diverso è invece l’ambiente. Matteo Righetto racconta infatti un bel pezzo di Dolomiti, partendo da Colle Santa Lucia, ma toccando poi il Falzarego, Livinallongo, la Val Zoldana fino a Longarone. Cime, boschi, sentieri e un orso, un orso dalle dimensioni inconsuete e dalla ferocia inusitata. E il padre ed il figlio adolescente che gli danno la caccia. Siamo negli anni sessanta, nel 1963, per la precisione, e la storia è raccontata sostanzialmente dalla parte del bambino, Domenico, Menego, che il padre Pietro coinvolge nel suo riscatto sociale, rappresentato in questo caso dalla uccisione dell’orso che terrorizza le valli alpine. È una storia di avventura, una storia di formazione, un rimettere in sesto i rapporti tra un padre sperduto e il figlio che si sente abbandonato. Domenico ha una saggezza precoce, ma come i ragazzi dei romanzi di Mark Twain, ha conservato il gusto per la natura, per la sfida, per il gioco che diventa all’improvviso vero, vitale e mortale nello stesso tempo. Il pericolo era evidentemente fare un clone, più o meno riuscito, di qualcosa che appartiene alla cultura americana. Righetto evita tutto questo riuscendo a trasferire la dimensione epica in una natura molto oggettiva, familiare, italiana, anzi veneta. E lo fa senza forzature. Non sono le Montagne rocciose, sono proprio le Dolomiti, ed i paesini di montagna un po’ ostili allo straniero hanno un’aria tutta ladina, che non hanno nulla a che vedere con l’America profonda. Righetto mostra anche qui la sua capacità di personalizzare i generi letterari, costruendo una storia d’avventura credibile: epica ma senza troppa enfasi, commovente ma senza indulgere alle lacrime, e questo grazie ad una scelta apparentemente minimalista. È un racconto scritto risparmiando sulle parole, in un certo senso. Righetto descrive spesso, ma sempre per poche righe, delineando appena il panorama. E così fa per le psicologie, per le vicende precedenti dei personaggi, per lo stesso orso che è il coprotagonista del libro.
Nicolò Menniti-Ippolito
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