Oic, vite in prima linea tra paure e speranze «I baci negati ai figli e quei pianti liberatori»
IL RACCONTO
Alice Ferretti / PADOVA
Non poter addormentare i propri figli, non potergli dare il bacio della buonanotte, tenere sempre una certa distanza da loro. Un sacrificio enorme per una mamma, ma c’è chi pur di aiutare il prossimo ha scelto di farlo.
È Francesca Santi, mamma di tre figli e operatore socio sanitario della fondazione Civitas Vitae Oic. Lei come tante altre madri, che di mestiere fanno il medico, l’infermiere, l’operatore socio sanitario, ha scelto di combattere in prima linea nell’emergenza coronavirus all’interno dell’Oic di Vedelago. Quando a marzo il direttore la chiama nel suo ufficio, le spiega che nella struttura trevigiana sarebbe stato aperto un reparto Covid con 32 letti e le chiede se fosse disposta a lavorarci. Non ci pensa due volte, e dice “sì”.
Ma la paura di un virus subdolo e pericoloso, per lei e per la sua famiglia, c’è eccome. «Nell’oscurità della notte cercavo rassicurazioni per annebbiare i sensi di colpa che solo una mamma può avere nei confronti dei propri figli. Quei figli a cui ho dovuto spiegare come sarebbe cambiato il mio lavoro, come sarebbe cambiata la nostra quotidianità, come per un po’ i nostri abbracci avrebbero preso una forma diversa, e in quel momento iniziavano i primi pianti. Io li chiamavo pianti liberatori perché poi mi caricavano di energia positiva».
E come Francesca, per oltre 80 giorni altri 23 dipendenti dell’Opera Immacolata Concezione, provenienti dalle diverse sedi, hanno lavorato insieme facendo squadra e gestendo insieme situazioni e relazioni umane delicatissime. «Ricordo un paziente che con gli occhi pieni di tristezza vedeva in me, in noi, una luce di speranza. Sotto morfina ci chiedeva una spremuta d’arancia, perché diceva che quando era a casa e si sentiva giù di tono prendeva la spremuta. Siamo riusciti ad esaudire il suo desiderio, è bastato solo un piccolo sorso, e abbiamo fatto bene visto che dopo due giorni purtroppo è mancato», racconta Alicia Acevedo, infermiera di origine peruviana che lavora alla residenza Santa Chiara Oic dal 2009. «Questa esperienza rimarrà sempre nei nostri cuori. Abbiamo cercato di fare del nostro meglio, il sorriso sotto la mascherina non mancava mai. E adesso siamo tutti tornati nelle nostre sedi più forti di prima».
Grazie alla preparazione degli operatori socio sanitari e degli infermieri, all’interno del reparto Covid dell’Oic di Vedelago non c’è stato alcun contagio tra il personale. Un bilancio al termine dell’emergenza lo fa Salvatore Canto, operatore socio sanitario dell’Oic Nazareth. «È stata un’esperienza bella per come siamo riusciti a collaborare tra noi operatori, ma allo stesso tempo molto dura, che mi ha fatto riflettere sul senso della vita». Dura per la paura di contrarre il virus, per il dover vedere tante persone soffrire, e qualcuno non farcela, ma anche perché trovarsi improvvisamente la vita stravolta non è semplice. «In quel periodo facevo casa-lavoro, non avevo contatti con nessuno, neanche con la mia famiglia».
Ieri mattina tutti gli operatori socio sanitari e gli infermieri che si sono spesi all’interno dell’Oic di Vedelago durante l’emergenza Covid sono stati insigniti di un attestato che documenta il loro contributo in quel difficile momento. «Vogliamo che tutto ciò rimanga un esempio nella storia della Fondazione e nel suo futuro», ha detto Fabio Toso, direttore generale della Fondazione Oic Onlus. Andrea Cavagnis, presidente della Fondazione, ha scritto una lettera di ringraziamento inviata a ciascuno dei 23 dipendenti: «La qualità umana e professionale dei servizi offerti a chi si è trovato colpito dal Covid 19 ha fondato la sua eccellenza nella fiducia e nella certezza di poter, tutti insieme, collaborare per un risultato che ha richiesto grande attenzione, capacità di innovazione, disciplina e coraggio». —
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