«Ok il piano sul nuovo ospedale ma serve investire sui giovani»

Dopo 33 anni trascorsi negli Stati Uniti, all’apice della carriera, ha scelto di tornare a lavorare in Italia. Può sembrare una storia controcorrente quella del padovano Alessandro Olivi, 61 anni, neurochirurgo con 5mila interventi all’attivo, approdato al Policlinico Gemelli di Roma con l’incarico di ordinario di Neurochirurgia all’Università Cattolica e direttore dell’Unità operativa complessa di neurochirurgia dell’ospedale universitario.
Un rientro, il suo, che ha avuto anche eco sui social, con tanto di tweet di incoraggiamento da parte del presidente del consiglio Matteo Renzi. Ma ascoltandolo parlare della sua esperienza, nel suo italiano impastato di espressioni americane, si capisce come riattraversare l’Oceano non sia stato un modo per voltare pagina, piuttosto sia parte di un’unica narrazione. Olivi si è laureato in medicina a Padova, come anche sua moglie, sua compagna di corso e poi di vita: l’ha seguito negli Usa e ora in Italia. Era il 1979 e scelse subito di partire, seguendo la via americana alla neurochirurgia. La prima destinazione come ricercatore è stata Cincinnati. Poi, nel 1988, Baltimora, dove è entrato al Johns Hopkins Hospital, salendo via via tutti i gradini della carriera di neurochirurgo e di accademico. Tra i fili conduttori che legano la sua lunga esperienza americana a quella italiana da poco iniziata, oltre allo sviluppo di modelli innovativi di assistenza clinica e alla determinazione di avviare gruppi di lavoro internazionali, c’è quello della formazione. Tema, questo, che gli sta particolarmente a cuore. «Non sarò davvero soddisfatto» dice »se non riuscirò a lasciare un’impronta a una nuova generazione di neurochirurghi», dice.
Generazione di neurochirurghi non solo americana.
«Con il Veneto in questi anni c’è sempre stato un canale aperto, alla Johns Hopkins sono passati diversi giovani che hanno fatto esperienze di ricerca per poi tornare in Italia».
Dagli Stati Uniti ha avuto modo di seguire le discussioni sulla realizzazione del nuovo ospedale?
«Conosco il progetto, non il dibattito nel dettaglio. Credo sia una cosa importante, in linea con le nuove opere di edilizia ospedaliera di cui sono stato testimone negli Stati Uniti. Nel 2012 è nato un nuovo ospedale alla Johns Hopkins per gli interventi neurochirurgici e cardiochirurgici, enorme opera ad alta tecnologia, l’opera edilizia di rinnovamento ospedaliero più grande del momento negli Stati Uniti. Al di là del completamento della struttura in sé, questi progetti danno impulso a nuovi programmi, quelli che poi portano ai risultati migliori per i pazienti. Avendo vissuto questa esperienza, non posso che appoggiare questa iniziativa a Padova».
La sua è una storia di successo. In Italia a volte le eccellenze si perdono, per mancanza di strutture e opportunità.
«Questo è un problema non solo di Padova. Nasce dalla combinazione di due fattori: risorse scarse, e mancata confluenza di queste risorse verso giovani meritevoli, che vogliono crescere professionalmente. Non hanno prospettive».
Per questo ha lasciato Padova subito dopo la laurea?
«Sentivo forte l’esigenza di cogliere opportunità di crescita accademica e professionale senza dover “subire” la trafila italiana che non sempre concede ai giovani opportunità adeguate alle proprie qualità».
Oggi cosa consiglia a un giovane ricercatore?
«Dipende dalla situazione locale. In genere consiglio di considerare formazioni all’estero ma di non mollare la possibilità di far fruttare in Italia quello che si ha imparato fuori».
Partire per poi tornare?
«Sarebbe una bella cosa. Bisogna vedere però se ci sono le risorse e gli spazi per tornare in Italia».
Cinzia Lucchellì
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