Olimpia, diario di una vita dipinta sulla tela

di Cristiana Sparvoli
C’è un fiore che rappresenta l’intima essenza di Olimpia Biasi ed è la rosa. Ne è letteralmente “invaso” il suo giardino dell’antica casa di Lovadina (Treviso), nelle terre del Piave. Un giardino che a uno sguardo frettoloso può apparire troppo pieno, non ordinato secondo un disegno botanico ben preciso. Ma lei lo ha voluto così. Libero da convenzioni (stessa libertà anticonformista che si coglie nel modo in cui Olimpia si abbiglia), in cui le essenze aromatiche fanno a gara per contrastare la suprema bellezza delle rose. Semplicemente candide, dalla romantica natura, eleganti ed aggraziate nel comporre la tranquilla atmosfera dell’hortus conclusus in cui la pittrice trova vastissima ispirazione, trasportando nei grandi teleri, nei dipinti, nelle incisioni e anche negli schizzi (la sua mano dal segno felicissimo è talento raro) quel che lo sguardo coglie dalle finestre dell’atelier-abitazione (tra tazze da tè inglesi, divani ottocenteschi e oggetti d’arte ovunque), osservando il suo mondo-giardino. Lo dice bene lo scrittore Nico Naldini, sodale di una vita della pittrice trevigiana, nel descrivere il senso della monografia “Olimpia Biasi. Diario 1972-2015”, pubblicata da Skira sul finire del 2015 a cura di Paola Bonifacio, conservatore della Pinacoteca “Alberto Martini” di Oderzo, e che verrà presentata domani alle 17 nel Museo Civico di Santa Caterina a Treviso. «Da qualsiasi parte li si guardi questi quadri non si chiudono in un’unica visione ma lasciano aperti altrettanti ingressi verso quel mondo di energie che si sprigionano dal cuore più nascosto della natura». Naldini racconta che Olimpia l’Eden nostrano lo ha visitato più volte e rapita dalle sue visioni ha preso appunti che poi ha trasferito su tela, tessendo la cronaca di quei vagabondaggi in un mondo segreto che sopravvive solo per lei. Eden era anche la campagna opitergina in cui la pittrice è nata (nel 1947) e che oggi rievoca con affetto come il suo Veneto felix: «Nonno Biasi aveva una vasta azienda agricola, coltivata anche a vigneto. Ricordo quell’ordinata divisione tra campi, gelsi e fossati. Oggi non ne resta più nulla di quel paesaggio gentile». Dalla campagna del fiume Monticano alla laguna di Venezia, quando va a studiare al Liceo Artistico di Venezia con i maestri dello Spazialismo, Bacci e Gaspari (ma anche Pizzinato e Barbisan genio dell’incisione grafica). Poi gli studi di architettura e l’approdo a Treviso, con il primo studio incorniciato dalla grande ansa del Sile. Mentre il presente ha il colore delle ghiaie del Piave. Un altro fiume, poco distante dal borgo di Lovadina, che segna la quotidianità di Olimpia: «Se ci penso bene, la mia vita è stata sempre a poca distanza da un fiume». Nel 1974 la prima mostra in una galleria di Pavia e poi negli anni un itinerario di tante esposizioni personali e collettive, in Italia e all’estero. Ed anche una vasta bibliografia (con gli scritti di Gianfranco Folena, Elio Bartolini, Cino Boccazzi tra i tanti) raccolta nel “Diario” in forma di monografia, densa di volti che hanno lasciato una profonda traccia nella poetica naturale di Biasi: Nico Naldini in primis, Giorgio Soavi, Giovanni Comisso, Gian Antonio Cibotto, Myriam Zerbi, Fernando Bandini, Flavia Casagranda e altri personaggi della cultura. Ma anche gli affetti familiari: il marito Enzo, il figlio, la madre, la Resi. Ed i luoghi: il Veneto perdiletto ma anche “odiato” per come oggi spesso maltrattata il paesaggio e la cultura; la natura selvaggia di Stromboli; i colori e l’allegria dei viaggi in Sudamerica, che contagiano anche le sua arte. Per poi tornare sempre al mondo di edere e bianche rose della casa, straordinariamente raccontato (e disegnato) nel volumetto “L'agapanto di Luchino e altre storie vegetali nel giardino di Olimpia”. Una summa dell’anima di Biasi volta a cantare l’irripetibilità della Natura-Creato. Il “Cielo calpestabile” donato al Museo di Treviso ne è un simbolo: «È la mia protesta a difesa dell’essenza poetica e letteraria del cielo, contro una futuribile, e speriamo mai possibile, utilizzazione del cielo come fosse un territorio da spartire».
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