«Povera Padova, era così bella coi portici scuri, miseri e ombrosi»

Poche righe su 7 Aprile e Calogero «Uso politico del diritto» La condanna è per il Pci, per Ventura, Galante e Zanonato

C’è tanta politica, ma anche tanta Padova nella autobiografia di Toni Negri.

Si comincia dalla città in guerra, sotto i bombardamenti che interrompono le guerre tra le bande di bambini di via Montello e delle Melette. Poi c’è la Padova del ’45, i tedeschi che scappano e Toni Negri dodicenne che ruba una maschera a gas, che 34 anni dopo la polizia ritroverà perquisendo la sua casa.

Nel 1947 il Tito Livio col Preside Biasuz e i primi contatti con il mondo cattolico e il vescovo Bortignon. Ci sono gli amici con i quali Toni Negri scopre la letteratura, la politica, le passioni intellettuali che lo spingono, pur essendo bravo in matematica, a fare filosofia. Già da giovane ama gli irregolari: Novello Papafava per esempio che lo avvia al pensiero di Gobetti, oppure Libero Marzetto che trasmette ai giovani una vena anarchica. Ed anche il vescovo Bortignon gli va a genio «forte tempra di resistente al fascismo e intelligente teologo». Meno bene gli va «l’ambiente tanto codino e religiosamente disciplinato» che domina la città. All’Università alcuni incontri importanti, soprattutto Enrico Opocher («Un uomo onesto: ti faceva lavorare con molta efficacia… fu un buon rettore») che gli apre la strada per la carriera di ricercatore di Filosofia del Diritto, ma anche Carlo Diano senza il quale «forse non avrei potuto costruire il pensiero della rivoluzione contro il lavoro».

È una Padova vivace culturalmente. Negri cita le lezioni di Folena, ma anche la riscoperta di Ruzante nel centro Teatrale Universitario con Zorzi e Lecocq.

Mentre si dedica allo studio Toni Negri comincia anche a fare politica. All’inizio degli anni Sessanta è consigliere comunale del Psi: è tra i giovani allevati da Emilio Rosini. Si mette in luce come “massacratore di suore” perché vuole tagliare i fondi agli asili privati, ma assiste impotente al “disastro”, come dice lui: «Padova stava per essere del tutto cementificata, il delizioso canale Piovego che circondava il centro ricoperto, le auto penetravano e soffocavano il tessuto medievale della città». E tra un affondo e l’altro contro la borghesia nera c’è lo spazio quasi per l’elegia: «Povera Padova, era così bella coi portici scuri, miseri e ombrosi, con i muretti intorno ai canali ...».

Ma la politica preme. Con Mario Isnenghi e Aldo Musacchio emergono alla fine degli anni Cinquanta i temi operaisti che diventeranno fondamentali per Toni Negri ai tempi di Poetere Operaio. E poco dopo, a metà degli anni ’60 la “povera Padova” diventa capitale della strategia della tensione.

Toni Negri rivive sulla pagina le diversi fasi, con Franco Freda e Giovanni Giannettini da un lato, il trasferimento del commissario Juliano dall’altro, perché ha intuito la pista fascista, l’arrivo di un commissario della squadra mobile, Saverio Molino «cui guardavano con simpatia» scrive Negri «le squadracce fasciste».

Ma Negri ce l’ha soprattutto con i teorici del doppio estremismo. Nel libro cita anche un romanzo come “Occidente” di Ferdinando Camon che – sempre secondo Negri – tratteggia «un dualismo di attori dello scontro tra terroristi veneti».

Intanto a Rosolina, Potere Operaio, in una celebre riunione che diventerà anche oggetto di indagine giudiziaria, si scioglie e Negri è tra i grandi protagonisti del dibattito. E’ il racconto degli anni di piombo. Negri difende tutto il suo operato, anche le trattative sui voti agli esami condotte con gli studenti, quel voto garantito che peserà per anni sulla facoltà di Sciene Politiche.

Lamenta semmai di essere stato isolato dagli altri professori, forse anche per invidia scientifica verso un dipartimento (quello che comprendeva Ferrari Bravo, Gambino, Serafini, Marazzi oltre a Negri) che mieteva riconoscimenti a livello internazionale.

Negri preferisce andare a Parigi a insegnare, poi, negli Stati Uniti, ma torna spesso a Padova. Il clima si fa difficile, ricorda: «Ormai la pressione poliziesca te la senti sul collo... hai l’impressione di essere seguito, e poi vedi sempre le stesse facce sfuggenti, qua e là, in treno o in un angolo nell’aula di lezione».

E si arriva quindi alla fase finale, al teorema Calogero che porterà al suo arresto. Negri liquida il procuratore in poche righe («singolarissima forma di uso politico del diritto penale»), ma non è lui il protagonista. Piuttosto Angelo Ventura, il professore di storia contemporanea gambizzato nel 1977 (allora si diceva così quando i terroristi sparavano alle gambe, una sorte condivisa anche da Indro Montanelli, per citare una delle vittime più note), che Negri individua come suggeritore, ma soprattutto il Pci nazionale e padovano, con Zanonato, Franco Longo «e soprattutto Severino Galante» che sono per lui i veri artefici perché avrebbero fornito al teorema le «gambe materiali, ossia volgari pentiti».

Nicolò Menniti Ippolito

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