«Preti, samaritani delusi Uno su due è in crisi»

di FRANCESCO JORI
Non figurano in nessuno degli elenchi dei lavori usuranti sfornati a suo tempo per la riforma delle pensioni. Ma ci sono anche loro: pure i preti scoppiano se, presto o tardi, una crepa intacca il meccanismo della loro quotidianità. Una realtà presente anche nella diocesi di Padova, la più grande del Nordest, oltre un milione di anime sparse in cinque delle sette province del Veneto: e analizzata in una ricerca su 400 sacerdoti dedicata alla “sindrome del burnout”. Lo studio è diventato un punto di riferimento a livello nazionale nel mondo ecclesiastico.
Non sono numeri da poco, quelli che emergono: quattro su dieci degli intervistati figurano tra quelli coinvolti dalla crisi, e altri due denunciano uno stato di forte disagio. C’è anche un evidente legame con gli anni di sacerdozio: il fenomeno è più diffuso tra i preti con meno anni di ministero, ma è accentuato pure tra quelli che ne hanno già una ventina alle spalle. I soggetti più esposti sono i vicari parrocchiali: quasi metà di loro rientrano nella categoria dei burn-out, e solo per un terzo le cose funzionano bene, mentre sono più diffusi gli stanchi. Cos’è che porta tanti di loro a logorarsi a tal punto? «Si va dall’eccessiva dipendenza dalle attese degli altri, al senso di colpa e alla paura del giudizio per concedersi del riposo», risponde la ricerca, che chiama in causa anche motivazioni esterne: a partire dal tipo di lavoro pastorale, spesso vissuto come pesante, emotivamente esposto, «frustrante perché ciò che il prete offre non sembra rispondere a una domanda reale». E dalle risposte emerge uno spaccato netto della vita stessa del sacerdote: «Il più delle volte non riesci a vivere una vita normale, pure quando vai a mangiare una pizza sei considerato come prete e ti comporti come tale». Ma qualcosa si guasta a volte anche dentro l’istituzione, come segnalano due testimonianze: «C’è poca solidarietà pure tra preti»; «Anche oggi siamo usati per un progetto che noi non conosciamo; se siamo una tessera di un mosaico, dobbiamo dire che il disegno intero non lo conosciamo».
Spersonalizzazione, esaurimento emotivo, scarsa efficacia personale sono i tre elementi di fondo che concorrono a innescare la sindrome del buon samaritano deluso. Tensioni personali che si innestano in una realtà profondamente diversa rispetto al passato, segnala don Giorgio Ronzoni, uno dei tre autori della ricerca: «Ieri c’era almeno un prete in ogni parrocchia e si poteva sostituire prontamente coloro che si trovavano in difficoltà; oggi l’essere presenti in ogni parrocchia chiede sforzi sempre più elevati e sembra rendere risultati pastorali sempre più scarsi. Nelle unità i pastorali i preti devono correre da un posto all’altro per garantire soprattutto un servizio liturgico, con il rischio di una sempre maggiore depersonalizzazione, di una minore realizzazione personale e di un forte esaurimento emotivo». Ma la chiesa, cosa può fare di fronte a questo fenomeno? «Serve una riflessione sul modo di fare pastorale per migliorare le condizioni del ministero. E’ curioso vedere che nelle organizzazioni aziendali si parla di vision e di mission, due termini che hanno un’origine biblica ma che non sono conosciuti in ambito ecclesiale: nonostante tutta la riflessione teologica, a livello di condivisione non c’è una chiara percezione della mission nel territorio e della vision sul futuro prossimo”.
Conferma un altro autore della ricerca, don Pierluigi Barzon: «Spero che la ricerca aiuti la Chiesa a prendere consapevolezza che ci sono persone che perdono interesse e motivazioni, non perché non pregano o non si impegnano a livello personale, ma perché ci sono difficoltà e fatiche della struttura». Sono datti e testimonianze che hanno alimentato un’ampia riflessione e importanti contributi, cui ha dato eco il settimanale diocesano “La Difesa del Popolo”, all’epoca diretto da Cesare Contarini. Come quello di don Lorenzo Mischiati, parroco di Borgo San Marco a Montagnana, nella Bassa padovana, che suggerisce l’esistenza di radici remote, in qualche modo legate al mito del veneto lavoratore per natura: «Il problema non è solo pastorale e teologico, è anche storico, e risale alla burocrazia austriaca, al senso di dovere kantiano che fa di noi preti grandi lavoratori; e forse una ”colpa” la possiamo anche dare all’ardore di san Gregorio Barbarigo che ha trasformato una diocesi di preti fannulloni in una diocesi superlativa a livello ecclesiale». E propone tre soluzioni concrete: rotazione rapida dei sacerdoti, revisione delle unità pastorali rendendole più attuali, e soprattutto «capire che il prete ammalato o problematico è marchiato dalla gente e dagli stessi preti… sarebbe opportuno sensibilizzarci ed educarci maggiormente a considerare i preti stanchi, e mi riferisco soprattutto dai 40 anni in su, con un rispetto sacrale».
Una comprensione che sembra invece latitare. Ha risposto uno dei sacerdoti intervistati: «Il prete deve essere un uomo ‘mangiato’». E don Ronzoni sottolinea: «Il prete si sente, ed è, in balia delle richieste dal basso e dall’alto; molti di loro hanno questo culto della disponibilità, di essere “sbranati” dalle richieste». Fino a diventare samaritani delusi dalla propria stessa bontà.
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