«Quando Faggin aveva le ali»

PADOVA. «Non dimenticatevi di Leandro Faggin ». Lo scrive in una bella e appassionata lettera l'amico Giovanni Marini. Lo dice con parole di grande dignità la signora Lucia Lorigiola, la moglie di Faggin . Per lui, per il suo Leandro , non chiede né celebrazioni né riflettori. «La dote principale di mio marito era l'umiltà - dice - Se fosse ancora vivo, avrebbe 77 anni. Io non penso che i giovani che non l'hanno mai conosciuto dovrebbero ricordarlo, questo no. Mi piacerebbe solo, ecco, che oggi scrivessero due righe per raccontare chi era».
Già, oggi sono passati quarant'anni esatti da quando Leandro Faggin se n'è andato. Una ricorrenza che rischiava di passare inosservata. Nel suo nome, si sa, è intitolata la Scuola di ciclismo al velodromo Monti, e pure una via a Rio di Ponte San Nicolò, inaugurata (fra l'altro) senza che la famiglia lo sapesse. Ma niente di più. Strane dimenticanze. Non solo perché all'estero, per esempio in Australia e anche in Canada, Faggin lo ricordano ogni anno con il Memorial Day; ma soprattutto perché qui si parla di uno dei più grandi campioni sportivi che Padova abbia mai avuto. E, proprio nello sport - il ciclismo su pista: una religione che aveva nel Monti la sua cattedrale - in cui i padovani vantano i loro campioni più illustri. Beghetto e Bianchetto, per esempio, uno tombolano e l'altro di Torre di Ponte di Brenta, e il loro supertandem alle Olimpiadi di Roma 1960. Più ovviamente Silvio Martinello, un oro olimpico e quattro mondiali, l'ultimo re delle curve paraboliche.
Inseguitore. Chi era Faggin è presto detto. Padrone assoluto e incontrastato dell'inseguimento individuale negli anni Cinquanta e Sessanta. Primo e unico padovano a vincere due medaglie d'oro (km da fermo e inseguimento a squadre) nella stessa Olimpiade, Melbourne 1956, l'unica disputata prima di passare l'anno dopo tra i professionisti. Ma anche tre mondiali vinti, Rocourt 1963, San Sebastian 1965 e Francoforte 1966. Più altri sei in cui è salito comunque sul podio. Più i 12 titoli italiani conquistati di fila, un dominio incontrastato, dal 1957 al 1968. Più ovviamente una sfilza di Sei Giorni e di record, tra cui quello storico dei 6 minuti, muro da lui disintegrato nel 1962. Forza. Già, ci vuole una forza spaventosa per vincere così tanto e così a lungo. La signora Lucia s'inorgoglisce. «Per tenere una velocità di 50 all'ora per 25 chilometri, tanti se ne fanno in tre giorni di gare fra qualificazioni, eliminatorie e finali, un inseguitore deve averne sulle gambe anche 200 - racconta - Lui si allenava su strada. Fra campionati, Sei Giorni e riunioni era sempre via. Faceva sì e no una settimana di ferie all'anno. E anche quando siamo andati in viaggio di nozze in Francia, nel 1960, l'anno delle Olimpiadi di Roma, siamo partiti con macchina e bicicletta...». Ciao Padova.
Non solo il ciclismo. Perché Faggin , due figli (Carlo 49 anni, e l'ex rugbysta del Petrarca Michele, 46), soprannominato anche il «rosso volante» non per il colore dei capelli (era biondo) ma per quello di una delle sue prime maglie, era per così dire uno sportivo a 360 gradi. Era per esempio tifosissimo del calcio. Una volta, racconta sempre la signora Lucia, di ritorno dai Mondiali in Germania, viaggiò tutta la notte con la sua Peugeot per non perdersi la partita del suo Padova allo stadio Appiani il giorno dopo. «Non dirmi niente, mi disse, ma devo andare a vedere la partita...». Pulito. Se n'è andato presto, troppo presto, Leandro Faggin . Un male incurabile se l'è portato via il 6 dicembre del 1970 a soli 37 anni. Troppo pochi per andarsene, e troppo chiacchierato il mondo del ciclismo per non accendere sospetti e insinuazioni. Persino Raffaele Guariniello, il pm di Torino (quello del caso Juve) aveva avviato anni fa un'indagine sul doping del passato, includendo nel suo fascicolo anche il nome di Faggin . La signora Lucia, che a Guariniello aveva scritto subito una lettera, non ha mai avuto dubbi. « Leandro ha cominciato a fare l'inseguimento a 17 anni. Io sapevo benissimo cosa prendeva e cosa mangiava. Uno che prende qualcosa va avanti per un anno, massimo due. Non venti come ha fatto lui».
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