Quegli zoccoli nascosti nel ricordo per cinquant’anni

di Antonio Gregolin
Un sacchetto di carta con dentro due zoccoli di legno tarlato. La storia può arrivare anche così: «Sono gli zoccoli che papà indossava nel campo di prigionia in Germania…» spiega oggi la figlia Donatella Boesso, dopo averli presi dalla soffitta della vecchia casa di famiglia in contrada Colombara a Villabalzana nel Basso Vicentino, dove sono rimasti per oltre cinquant'anni. Per mezzo secolo, Sergio Boesso ha tenuto chiuso l'ultimo cassetto dei ricordi che non aveva ancora rivelato. Era partito nel 1942 come bersagliere per il fronte sul Don in Russia, dove venne ferito in battaglia ad una gamba. Rimpatriato e curato in Italia, nel 1943 viene rispedito al fronte, stavolta in Jugoslavia. L'8 settembre del 1943 l'armistizio con la Germania, e Boesso coi suoi compagni viene stipato su carri bestiame dai tedeschi, convinto di tornare a casa. Quel treno invece viaggerà per sei giorni col suo carico umano, diretto a Dachau, poco distante da Monaco di Baviera in Germania. Per decenni questa esperienza se la terrà dentro, confidando sulla complicità della moglie Cecilia che oggi ha 87 anni, che conosceva la vicenda come la vera storia degli zoccoli lasciati in soffitta che nessuno osava toccare. Trascorsero gli anni e quegli zoccoli risuolati più volte dal papà, vecchi e poco pratici, «dovevano avere qualcosa di speciale» pensavano i figli. Finché il giorno di Natale del 1993 la convivialità famigliare venne interrotta dal padre: «Ci guardò con lo sguardo severo come non mai», racconta oggi la figlia maestra Donatella, rivangando quel momento. «Tasì, parchè voiatri non capì cosa voia dire morire de fredo! Cosa voia dire caminare sua neve coe scarpe rote, quando invece un par de “sabot” come quei che gò in sofita poe salvarte ea vita» gli disse il padre. Per la prima volta si spalancavano i cancelli dei ricordi su quel nuovo capitolo di storia del padre, che sarebbe stato peggiore di quello che aveva già raccontato sulla Russia e Jugoslavia. «A Dachau» racconterà Sergio ai figli «scendemmo dal carro come bestie affamate, senza che nessuno sapesse dove eravamo». Un soldato vedendolo robusto e forte, lo scaraventò a terra intimandogli di alzare una trave di ferro poco distante: «D'istinto riuscii ad alzare la pesante trave, senza immaginare che quella rappresentava per me la salvezza. In pratica ero stato selezionato. Venni allora rimesso sul treno con metà dei compagni, mentre quelli rimasti non li avrei più rivisti». «Viaggiammo per altri cinque giorni fino a giungere a Witzendorf, Nord-Germania in un campo per prigionieri di guerra più piccolo di quello di Dachau, ma con le medesime baracche di legno, dove l'unica fonte di riscaldamento era un fusto di ferro». Ai tedeschi serviva manovalanza per l'industria bellica, e ai prigionieri venne dato di lavorare in una fabbrica di olio per armamenti. Qualche mese dopo, proprio grazie all. a sua prestanza fisica, Sergio verrà notato dal responsabile civile dello stabilimento, con cui stringerà un legame di stima tale che non era raro che ricevesse da lui del cibo anche per i suoi compagni di baracca. «Quel tedesco era un uomo buono»ripeterà Sergio «mentre giravano voci su quello che stava accadendo agli ebrei. In cuor nostro pensavamo che avremmo fatto presto la stessa fine».«In quei mesi di prigionia, scarpe, abbigliamento e freddo, per noi significavano vita o morte, al punto che dormivamo accatastati su tavolati da sei, uno vicino l'altro, con le scarpe come cuscino per paura che ce le rubassero». I figli non sapranno mai chi diede al padre quegli zoccoli: «Era l'unico lusso che ci permettevano i tedeschi. Diversamente saremmo morti congelati». Per la fame un giorno Sergio sfiorerà nuovamente la morte: «Scoprii che l'olio che usavamo in fabbrica, andava bene anche per insaporire la nostra “sbobba”. Così a piccole dosi lo portavo nel campo di nascosto. Le SS per una soffiata trovarono uno di noi con l'olio nascosto sotto la giacchetta. La reazione fu immediata: un colpo alla nuca davanti ai nostri occhi. Io invece venni pestato a sangue con l'accusa d'essere stato complice di un furto all'esercito tedesco». «Non avrei avuto scampo, se non fosse intervenuto quel direttore tedesco che disse ai soldati: “Questo serve più da vivo che da morto. Riesce ad alzare da solo un fusto d'olio”. Conciato com’ero, alle SS dovette sembrare una sfida e mi ordinarono di alzare un fusto poco distante. Non so come, ma riuscii a sollevarlo. Ed eccomi ancora qua». Liberato dagli americani nel 1945, tornerà a casa che pesava meno di cinquanta chili con il foglio di carta su cui aveva annotato durante la prigionia tutti i nomi dei suoi compagni di baracca, immaginando che non sarebbe sopravvissuto. Quel Natale del 1993 per la famiglia Boesso squarciò quel velo del silenzio del padre, svelato così la storia di quegli zoccoli impolverati lasciati in soffitta come sospesi nel tempo.
Oggi quando passano di mano in mano, dai figli ai nipoti, qualcuno li accarezza teneramente come fosse una carezza fatta al padre e al nonno. Una carezza alla memoria. Gli zoccoli sono ora stati consegnati alla mostra “Terra nelle Scarpe”, nata nel Vicentino e richiesta a Milano per fine febbraio, in occasione della Settimana Internazionale della Moda: «Vedere esposti questi zoccoli» ha detto la figlia Donatella «significa ridare forza alla memoria di nostro padre, che per il dolore ha taciuto per mezzo secolo sulla sua estrema esperienza».
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