Quei due arazzi rubati dai lanzichenecchi e finiti sul Canal Grande

L'arazzo «La conversione di Saulo» è in mostra perché "dentro" c'è un po’ di Pietro Bembo. Il veneziano era grande amico di Raffaello che, nel 1514, venne incaricato da papa Leone X di preparare i...

L'arazzo «La conversione di Saulo» è in mostra perché "dentro" c'è un po’ di Pietro Bembo. Il veneziano era grande amico di Raffaello che, nel 1514, venne incaricato da papa Leone X di preparare i cartoni per otto grandi arazzi: avrebbero dovuto completare lo splendore della cappella Sistina, appesi alle pareti in basso, sotto i due cicli di Michelangelo che lasciavano il mondo a bocca aperta. Anche gli otto arazzi stupirono tutti: «Cosa più bella non c’è» scrissero i cronisti nel 1519, quando i primi sette vennero esposti. Uscivano dalla bottega di Coecke van Aelst di Bruxelles, un maestro che se li fece pagare carissimi, 15 mila ducati ciascuno: tanto costosi che pare fosse questa spesa pazza una delle gocce che fecero tracimare il vaso dell'indignazione di Martin Lutero nei confronti della Chiesa Romana. Anche Raffaello s'era fatto pagare bene, 100 ducati a cartone. Bembo, a quanto si sa, non vide un ducato ma probabilmente c'entra molto nell'ideazione delle scene dipinte da Raffaello: i due discutevano insieme, niente di più facile che Pietro, di fronte a quella committenza importante, abbia suggerito l'impianto “ideale” delle scene, gli elementi di un messaggio da trasmettere. Insomma, è possibile considerarlo lo “scenografo”.

La storia della «conversione di Saulo» è affascinante: esposto nel 1519, venne razziato con altri dai lanzi durante il sacco di Roma del 1527. Non si sa come, Isabella Gonzaga venne a sapere dov'erano due degli arazzi e volle ricomprarli, a suo dire per restituirli al papa. Vennero caricati su una nave, ma predati da pirati berberi. Arrivarono a Tunisi, dove li vide Giovanni Contarini, detto Cacciadiavoli, mercante veneziano abilissimo e spregiudicato, che li comprò assieme al suo socio Francesco Grimaldi, che li vendette all'avvocato veneziano Giovanni Antonio Venier. E proprio nel palazzo di Venier li vide, nel 1528, Marcantonio Michiel, che annota la cosa nei suoi "Diari". Venne a saperlo anche Bembo, che l'anno dopo da Padova scrisse, sperando che il Venier «gli prometta di acconciarglieli».

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