«Sistema collassato a Padova, subissati di richieste, medici per le visite usati per i tamponi»

PADOVA. Domenico Crisarà risponde al telefono alle 17.05. Il suo turno, nello studio che condivide con altri cinque medici di medicina generale all’Arcella, è terminato alle 12.30: «Non ci crederà, ma sono ancora qui» afferma il segretario regionale della Fimmg, il sindacato di categoria «e quando ho finito vado all’Ikea a comprare un armadietto per i camici, non posso portarli a casa e devo trovare un posto isolato dal resto dello studio».
Dottor Crisarà, cos’ha fatto fino a quest’ora?
«Visitato i pazienti, fatto il tampone rapido a quattro con sintomi sospetti, gestito valanghe di telefonate e compilato carte. Lunedì ho iniziato alle 9 e finito alle 23.30. Siamo in guerra con il mondo intero, il sistema è collassato e siamo bombardati dai datori di lavoro che vogliono certificati».
Giusto, adesso avete anche la responsabilità di prescrivere la quarantena e certificarne la fine.
«Lo abbiamo chiesto noi, perché altrimenti non se ne usciva. È un compito di sanità pubblica, una volta era in capo al medico condotto, poi è passata al Sisp, il Servizio di Igiene e Sanità Pubblica, ma la gente che non trovava risposte da loro chiamava noi. E quindi siamo intervenuti».
Avete chiesto più lavoro per semplificarvi la vita?
«Certo. Il Sisp è andato in tilt, bisognava fare qualcosa. Mi arrivavano mail dalle scuole in cui chiedevano a noi di fare i tamponi. Così abbiamo firmato un protocollo con il Sisp: ci avevano garantito una mail e un numero di telefono dedicati per comunicare in tempo reale. La prima settimana non ci hanno mai risposto, quindi ci hanno detto che non avevano personale per garantire questo servizio».
Cosa è cambiato tra giugno e settembre?
«Il sistema intorno a noi ha cominciato a collassare. Prima la gente aveva paura, ora ha cambiato atteggiamento e ha cominciato a gettare la responsabilità sui medici».
Cosa vi imputano?
«Di non essere raggiungibili. Io capisco che trovando un telefono sempre occupato possa venire il dubbio che sia staccato, ma da noi ci sono due signore che rispondono esclusivamente alle chiamate, dalle 7.30 alle 19. E sono sempre al telefono».
Di quanto è aumentato il lavoro?
«Il problema non è solo “quanto”, ma “come” è cambiata la quotidianità. Se è vero che il 90% dei positivi è asintomatico e che il 15% della popolazione è positiva, significa che oggi che ho visitato 25 persone di sicuro tra i miei pazienti c’erano almeno 3 positivi. E se non li visito con sovracamice, Ffp2 e guanti finisce che mi ammalo: dovremmo essere in due per svestirci. Ora, nessuno lo pretende, ma devo visitare chiunque come se fosse un asintomatico. I medici contagiati sono raddoppiati in meno di una settimana».
Come impatta la gestione dei tamponi rapidi?
«Li facciamo ai contatti stretti di un malato dopo 10 giorni in isolamento e ai casi sospetti. Giusto oggi ho sottoposto a tampone una signora con la diarrea, che è uno dei sintomi minori di Covid».
Sono sufficienti i tamponi che avete in dotazione?
«Ne erano stati previsti 25 a testa per due mesi, in Finanziaria c’è una previsione di spesa che ce ne attribuirebbe 40-45 tutto l’anno. Ridicolo. Molti di noi in Veneto hanno cominciato a farli prima che ci fosse l’accordo nazionale, lo facevamo gratis. E sinceramente a me non interessa che mi paghino il servizio, il problema è l’organizzazione: io ne ho fatti 4 in pausa pranzo, ma me li hanno organizzati le segretarie. Ed è questo il punto: Zaia dà le indicazioni poi ogni Usl trova la sua via, sono restie a destinarci il personale, infermieri e segretarie, la situazione è di difficile gestione, ci considerano esterni, addirittura nemici. Abbiamo chiesto aiuto ai Comuni per gli spazi e alcuni hanno risposto, altri hanno posto mille paletti, dalla pulizia alla sanificazione, fino all’assicurazione. E sì che noi garantiamo 4 mila tamponi al giorno».
Cos’è successo al Sisp?
«Mistero, non mi esprimo. Ma vorrei fare una riflessione: noi in questo lavoro dobbiamo metterci del nostro, comprarci gli armadietti, la carta igienica e gli aghi. La differenza rispetto ai dipendenti è questa: noi costiamo all’Usl 115-120 mila euro l’anno, un dipendente, dal portantino al radiologo ne costa 350-400 mila. Perché se a loro non compri barelle e macchinari, non lavorano. Sono scelte, per carità, ma la situazione è paradossale, perché più mi organizzo, con segretarie e infermieri, meno guadagno. Allora, a parità di pazienti mi converrebbe dare meno servizi».
Non avete incentivi?
«Sì, certo, per una segretaria o un infermiere ricevo 7 euro lordi a paziente l’anno. Un infermiere a me ne costa 25 l’ora e la segretaria 18. Questa non è una rivendicazione economica, ma la descrizione di mondi diversi, visto che c’è chi ci guarda con occhi malevoli e dice che lavoriamo tre ore al giorno. Eppure noi siamo gli unici medici che vengono scelti, c’è un rapporto fiduciario, se non lavori bene vieni revocato».
E le Usca non vi aiutano?
«Le Unità speciali di continuità assistenziale sono state pensate per darci una mano nelle visite domiciliari. Il primo aprile è stato firmato un protocollo con la Regione per cui veniva dato un riferimento Usca ogni 5 medici di medicina generale. Beh, direi che mai data fu più indicativa».
Perché?
«Perché quel protocollo non ha mai trovato applicazione. I medici delle Usca vengono gestiti dai distretti in modo autonomo e impiegati per fare tamponi ed etichettarli; ogni tanto fanno qualche visita domiciliare. Con un ulteriore paradosso: quando scrivi una mail ti arriva una risposta automatica o, alla meglio, trovi un neo abilitato che ti spiega come procedere. Non è questione di primato, ma di collaborazione che non c’è stata».
Di chi è la colpa?
«Diciamo che la volontà politica di fare le cose c’è, il problema è la declinazione pratica. Un esempio: ci sono 250 milioni per l’acquisto di dispositivi. Le Usl, su input della Regione hanno mandato di fare la ricognizione dei bisogni prima di procedere agli acquisti. Crede che ci abbiano interpellati? Ma prima di comprarmi qualcosa mi chiederai come la voglio, o no?».
Ma è un problema che riscontrate solo a Padova o con tutte le Usl?
«Con tutte. Perché c’è sempre un problema di fondo e cioè che noi siamo percepiti come un elemento estraneo da parte dei dirigenti di medio e basso livello che ci considerano antagonisti».
Avete avuto notizie del vaccino per il Covid?
«Noi non facciamo parte dell’unità di crisi, non abbiamo nessuna notizia. Del resto se sarà quello della Pfeizer, ci sarà il grandissimo problema della conservazione a qualunque livello. Tutti i giorni i pazienti mi chiedono notizie e io non so cosa dire. Del resto le politiche sanitarie si fanno in televisione. Un po’ com’è stato per i vaccini antinfluenzali».
Molte persone fragili sono rimaste escluse dalla somministrazione, dopo che per settimane siamo stati bombardati dalla necessità di vaccinarci tutti. Cos’è successo?
«Forse noi riusciamo a vaccinarli tutti, ma è stato un disastro. Per anni abbiamo pregato le persone di farlo e quest’anno il vaccino antinfluenzale è stato accolto come salvifico rispetto al Covid. Io ne avevo chiesto il 30% in più ma non è stato sufficiente: in due sabati, dalle 8 alle 11.30 ne abbiamo usati 1.200. I vaccini vanno programmati a marzo, ma nel frattempo è stata allargata enormemente la platea, pensiamo ai 60enni, che cono moltissimi. E poi statali, badanti. Le Regioni si sono trovate impreparate. E diciamo che il Veneto se l’è cavata meglio di altre. Per gestire questi vaccini servirebbero gare europee».
Non potevate assicurarlo prima ai più fragili?
«All’inizio non abbiamo fatto distinzioni, lo davamo a tutti quelli che avevano diritto. Quando hanno cominciato a scarseggiare abbiamo provato a garantire i più fragili ma si è scatenata una guerra».
Non denota un gran senso civico.
«Se ce ne fosse, non staremmo a discutere di piste da sci». —
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