Spirito Santo, la lezione di accoglienza

Un’intera parrocchia mobilitata, cinque gruppi di lavoro e venti volontari per una famiglia siriana in fuga dalla guerra

È il sei settembre 2015. Durante l’angelus, papa Francesco invita le comunità religiose, i monasteri, i santuari e le diocesi a «dare una speranza concreta ai migranti» e a «non creare isole inospitali». Il messaggio è forte e passa così: ogni parrocchia accolga una famiglia.

Padova, quartiere Forcellini, parrocchia di Santo Spirito: tanti anziani, un benessere fragile, consumato dalla crisi. A guidare la chiesa c’è don Giancarlo Battistuzzi – già apprezzato direttore del collegio vescovile Barbarigo – uno a cui le cronache danno risalto quando vieta il lancio del riso durante i matrimoni. «E’ uno spreco – sostiene lui – non è giusto buttarlo via». Don Giancarlo, in quell’inizio di settembre, non resta indifferente all’appello del Papa. Riunisce il consiglio pastorale e chiede: «Cosa possiamo fare?». Un anno e mezzo dopo, la parrocchia di Santo Spirito è la prima della diocesi di Padova ad abbracciare una famiglia in fuga dalla guerra attraverso i corridoi umanitari. Sono siriani di Homs – mamma, papà e tre bambine di otto, sei e un anno e mezzo – e sono sbarcati a Fiumicino tre giorni fa. Quello che ha fatto la parrocchia per loro merita di essere raccontato perché, al di là delle coincidenze fortunate avute durante i preparativi, rappresenta un manuale di accoglienza. E potrebbe servire da esempio, se qualcuno volesse seguirlo.

«Noi abbiamo scelto di liberare una famiglia dalla trappola dei centri di accoglienza, dove resta imprigionato chi vorrebbe scappare ma non ce la fa», racconta don Giancarlo. È questa la condizione in cui si trovano Ayman, 36 anni, e sua moglie Rawiya, 32 appena compiuti. Insieme alle loro tre bambine (Nour, Nagham e Natali) hanno tentato di raggiungere l’Europa passando per la Turchia, ma si sono ritrovati in un campo profughi in Libano. Non hanno osato tentare la traversata con un barcone, anche perché la bambina più piccola è appena nata. «Noi intanto, in quei primi mesi, cominciamo a muoverci per capire cosa si può fare», prosegue don Giancarlo. «Per mettere in moto una parrocchia ci vuole tempo, anche perché non abbiamo tante risorse, non siamo ricchi, non c’è nessuno che finanzia l’operazione. Contattiamo la comunità di Sant’Egidio, che lavora qui da noi con gli anziani e che sappiamo essere ben introdotta in quei canali, ed esploriamo la possibilità di trovare una famiglia da accogliere». L’unico criterio fissato dal consiglio pastorale è che si trovi in un centro profughi. Non importa la composizione, né che sia cristiana o musulmana. Nessuna preferenza.

La comunità dello Spirito Santo, intanto, si mostra non ostile. Non ci sono particolari entusiasmi in parrocchia, semmai prevale un certo scetticismo, ma nessuno si oppone all’iniziativa. «Arriva settembre dell’anno scorso e c’è la sagra», racconta ancora il don. «Nella serata che solitamente dedichiamo a un dibattito, decidiamo di parlare proprio di accoglienza. Presentiamo l’iniziativa, rispondiamo ai dubbi di qualche parrocchiano, chiudiamo l’assemblea con la decisione di passare alla fase operativa». Quella sera, spente le luci del palco, don Giancarlo convoca i giovani e chiede loro di fare un annuncio sui gruppi whatsapp e su Facebook per trovare un appartamento in affitto, «nel quartiere o in quelli vicini». La mattina dopo succede l’imprevedibile. «Una donna che abita qui di fronte suona alla mia porta e mi dice che sta per trasferirsi all’estero. Vuole salutarmi e annunciarmi che venderà casa», racconta don Giancarlo. «Io le parlo della nostra iniziativa e lei mi offre il suo appartamento in affitto e a un prezzo basso. È fatta, lo prendo come un segno della provvidenza. Contatto Sant’Egidio e cominciamo a organizzarci».

Tutta la parrocchia è coinvolta nei preparativi. La Caritas prende in mano la regìa dell’operazione. Si dividono gli interventi in cinque filoni. Un gruppo si occuperà dell’assistenza diretta alla famiglia (e nel palazzo in cui è ospitata – altra coincidenza – ci sono due persone che possono seguirli direttamente). Un altro gruppo si fa carico delle questioni economiche. Poi ci sono gli aspetti educativi come l’inserimento a scuola dei bambini (ma al tempo ancora non si sa se ce ne saranno e quanti) e i corsi di italiano per gli adulti, trovando volontari tra gli universitari del quartiere ed ex maestre in pensione. E gli aspetti sanitari (si coinvolgono un pediatra ma anche un geriatra, in caso di necessità, e poi uno psicologo. Le questioni amministrative, infine, vengono affidate al quinto gruppo che si farà carico, per esempio, dei documenti per i permessi di soggiorno. Nulla è lasciato al caso. Ma il caso è sempre favorevole, tanto è vero che al momento di andare a prendere la famiglia in arrivo a Fiumicino, il parroco può contare anche su un medico e un co-autista siriano, con moglie che parla siriano anche lei e che si offrono di partecipare alla missione.

Così, da due giorni, la famiglia arrivata da Homs si è calata nella realtà del quartiere. Le bambine sorridono timide, i genitori si guardano intorno ancora un po’ straniti. «Lui ha un attestato da elettrauto», racconta il parroco, «e stiamo cercando un modo di fargli proseguire quel genere di formazione». L’obiettivo ovviamente è di arrivare a una condizione di autosufficienza, almeno fino a quando decideranno di restare in Italia. «Le bambine tra poco andranno a scuola, i genitori studieranno l’italiano». Venti persone sono stabilmente coinvolte nel “progetto accoglienza”, c’è anche un conto corrente perché l’iniziativa abbia un futuro. E ce l’avrà, perché l’accoglienza, fatta in questo modo, accende la parte migliore di una comunità. «A parte pochi casi», conclude don Giancarlo, «restiamo un popolo accogliente. E di grande umanità».

Cristiano Cadoni

Argomenti:immigrazione

Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova