«Vi mostro la guerra di chi andava a morire»
di Nicolò Menniti-Ippolito
Uomo di teatro, ma anche uomo di archivio, Mario Perrotta ha da tempo scoperto che esiste a Pieve Santo Stefano una vera miniera per chi, come lui, vuole raccontare la storia dalla parte degli ultimi. Sono le migliaia di testimonianze raccolte nei diari e nelle lettere custoditi dall’Archivio Diaristico Nazionale, che ora sono stati, per la parte relativa alla Prima guerra mondiale, resi disponibile sul web da una collaborazione con il gruppo Espresso, a cura di Nicola Maranesi e Pier Vittorio Buffa. E proprio da questa parte di archivi parte “Milite ignoto”, racconto della Grande Guerra, scritto e interpretato dall’attore leccese, che ha già raccolto attenzione e premi e ora arriva nei teatri del Veneto.
Mario Perrotta, partiamo dai diari: quanto contano nel suo racconto teatrale?
«Molto, sono stati il punto di partenza. Avevo già usato quel materiale d’archivio per costruire la mia trilogia sull’emigrazione. Ora li ho usati per raccontare la storia di un soldato della Grande Guerra, un milite ignoto che rappresenta tutti i soldati senza nome che hanno combattuto e sono morti, ma anche un milite ignoto a se stesso, che ha perso l’identità per uno scoppio e racconta come fosse tutti i suoi commilitoni».
Cosa rende queste forme di scrittura popolare utili per il teatro?
«Il fatto che siano racconti diretti, forti, senza mediazioni letterarie, raccontano le sensazioni, spesso sono scritti sotto i bombardamenti, mentre si soffre e si rischia la vita. Non è la guerra vista dalla parte dei generali ma dalla parte di chi andava a morire. Nei testi di riferimento di Cadorna stava scritto che bisognava calcolare quanti colpi poteva sparare una mitragliatrice e mandare all’attacco qualche uomo in più, in modo che qualcuno sopravvivesse e arrivasse alle trincee nemiche. Bisognerebbe scalpellare il nome di Cadorna dalle strade e metterci quello dei soldati mandati a morire».
Che lingua parla questo “Milite ignoto”?
«Parla tutti i dialetti italiani. Quello che ho voluto raccontare è il dramma linguistico dei soldati. Nessuno parlava italiano, ognuno parlava il suo dialetto e non sempre capiva chi gli stava a fianco. E non capire poteva voler dire anche morire, per un ordine frainteso, per una parola non compresa a pieno. Ho pensato che il milite ignoto doveva unire nella stessa frase il vicentino e il napoletano, il trevigiano ed il messinese».
E quella che esce è una nuova lingua?
«Spero proprio di sì. Qualcuno ha parlato di Gadda, ma mi sembra troppo. Altri di koinè linguistica. A me basta che si capisca che non è un esercizio di stile, ma provare a creare una lingua unica partendo da un’ottantina di dialetti. Non ho voluto fare qualcosa alla Zelig, ma entrare nello spirito di ogni dialetto, perché parlare un dialetto diverso significa anche pensare in modo diverso».
Impresa non facile per un attore.
«I miei amici dicono che io sono geneticamente programmato per andare in scena, ma quando devo affrontare questo spettacolo provo anch’io un certo timore. È un grande sforzo quello che faccio recitando in questa lingua, che non vuole imitare i dialetti, ma restituire un modo di sentire».
Raccontare la guerra invece che mostrarla funziona?
«Credo di sì. Il pubblico ha grande capacità di immaginazione, solo che di solito non viene messa in moto. Siamo abituati a vedere invece che immaginare. Quando alla fine dello spettacolo vengono a ringraziarmi dicendo che sono riusciti a vedere i personaggi, io rispondo che non sono stato io a mostarglieli, sono stati loro a crearli con l’immaginazione».
Lo spettacolo arriva in Veneto, nei luoghi della Guerra. Il 10 ottobre a Montebelluna, il 23 a Vicenza, poi Mirano, Mira e altre città. È diverso parlare qui di guerra?
«Sì, ogni luogo secondo me ha un’anima e qui i segno della prima guerra non sono solo esteriori. Ci sono i musei, le trincee, ma qualcosa è rimasto anche dentro le persone, una ferita aperta che nonostante gli anni passati si riconosce ancora».
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