“ Visi sorridenti” L’autismo non uccide il diritto all’identità

Il nuovo libro di Franco e Andrea Antonello, padre e figlio dopo il caso editoriale “Se ti abbraccio non avere paura”
Di Nicolò Menniti-ippolito

Si intitola “Sono graditi visi sorridenti”, ma potrebbe intitolarsi, come un disco di De Andrè, “In direzione ostinata e contraria”. Perché un ragazzo autistico che non parla, ma scrive un libro, significa spezzare una catena, contraddire ciò sembra compiuto una volta per tutte.

La storia è in parte nota, l’ha raccontata Fulvio Ervas in un bestseller ormai internazionale, “Se ti abbraccio non avere paura”. Oggi arriva in libreria l’altra parte della storia, o meglio la storia tutta intera e a raccontarla in prima persona sono i due protagonisti del libro di Ervas, Franco e Andrea Antonello.

“Sono graditi visi sorridenti” (Feltrinelli p.240, 18 euro) è la storia che precede e segue il viaggio in motocicletta raccontato in “Se ti abbraccio non avere paura”. È il racconto di come un ragazzo di Castelfranco ha avuto un figlio, ha scoperto che era autistico, ha lottato con tutte le sue forze perché non lo fosse, alla fine ha accettato, e ha deciso di dedicare a questo figlio, e agli altri come lui, la sua vita, creando una fondazione e cercando di fare capire cosa voglia dire la diversità e come si possa convivere con essa. Ma è anche la storia di un ragazzo autistico, che anno dopo anno impara a scrivere su una tastiera lettere e poi parole, e alla fine diventa in grado di comunicare, sia pure per frammenti.

Se ciò che contraddistingue l’autismo è l’isolamento, l’incapacità di relazionarsi, Andrea Antonello si muove ostinatamente in direzione contraria, cercando parole, come quelle del titolo, per dire cosa vogliono i ragazzi autistici. “Visi sorridenti”, certamente, ma anche il riconoscimento del proprio dolore senza requie: “Vita bella sembra la nostra ma molto soffriamo ogni giorno. Io vorrei che si ricordasse anche questo”.

Le parole di Andrea nel libro non sono molte, qualche pagina appena, perché il suo modo di comunicare è faticoso e lapidario. Qualche volta c’è anche il timore di sovrinterpretare le sue parole, di leggervi un senso diverso da quello che hanno, ma non ha molta importanza perché il libro vuole altro: affermare un diritto alla parola, un diritto alla identità che l’autismo non uccide.

Per il resto il libro è la vicenda di Franco Antonello. Parte dall’albergo di famiglia, nel centro di Castelfranco. Prosegue coi sogni di un ragazzo che abbandona il posto in banca perché vuole altro. Arriva alla scoperta del Brasile come luogo di libertà. Si inchioda in un giorno preciso, quando tornando a casa scopre che qualcosa non va nel figlio di due anni e mezzo. Comincia il calvario delle diverse diagnosi, la sentenza finale: autismo. Ed allora sperare che non sia vero, cercare le cause, affidarsi a santoni di ogni continente: Africa, Brasile, medicine alternative, poi, improvviso, uno spiraglio che non ha a che fare con la speranza di una guarigione, ma semplicemente con la possibilità di trovare un canale per entrare in contatto col figlio. Antonello racconta un dramma e un lieto fine. Che non è la scomparsa della malattia, ma la possibilità di non viverla più come una condanna. È non vergognarsi più di quel che il figlio fa; è accorgersi che molto dipende dal mondo intorno. In Brasile la diversità non fa paura, a Castelfranco sì. Ma la paura si può vincere, si può imparare a non nascondersi più, si può attraversare l’America in motocicletta.

Significa -come dice Andrea al padre: “Non far vedere in trasmissione solo Andrea bravo devono vedermi nel mio problema”.

Il libro sostiene l’associazione “I bambini delle fate”.

Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova